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"Senza aggettivi", un libro di Pietro Folena, Alessandro Genovesi e Paolo Nerozzi. Una riflessione sulla prima, vera crisi della globalizzazione e l’emergere di uno Stato unico d’eccezione nel mondo
di Giovanni Russo Spena
Senza aggettivi, di Pietro Folena, Alessandro Genovesi e Paolo Nerozzi (Baldini Castoldi Dalai editore) è un libro importante. Lo condivido molto; a partire dalla dedica: «A Tom. Questo libro avremmo voluto scriverlo tutti insieme». E’ importante, per paradosso, proprio perché sceglie non di sistemare, catalogare, riordinare; ma, in un tornante storico caratterizzato da grandi sommovimenti, in cui mutano i paradigmi, si interroga, riflette, rielabora, diviene una «sorta di bloc-notes» (come amano dire gli autori) che altri completeranno, forse in un diverso tempo, in un altro contesto.
L’assillo dei tre autori, che hanno alle spalle percorsi culturali e politici diversi, matura, simbolicamente, a Porto Alegre, a Genova, nella scoperta di nuovi linguaggi, di movimenti altermondialisti che rimettono a tema l’attualità della trasformazione anticapitalista, che disvelano l’ipocrisia della presunta oggettività delle leggi dell’economia liberista. Crolla il "pensiero unico" del mercato; inizia, tra drammatiche convulsioni e l’autoritarismo globale dello "stato di eccezione", la prima crisi della globalizzazione liberista.
Il nucleo fondamentale del bloc-notes sta in questa riflessione molto "aperta", in questa domanda: «nuovi linguaggi e soprattutto una nuova generazione ci avevano messo sul banco degli imputati e molti di noi non ne erano consapevoli. Ma a prenderci alla sprovvista poteva essere stato veramente il fatto che milioni di persone contestassero una globalizzazione delle ingiustizie? Da questa domanda è iniziato il nostro assillo. Perché ci ha messi di fronte a un’amara verità: contro Berlusconi... avevamo perso perché troppo simili a lui, perché incapaci di delineare un modello di società alternativa».
Il viaggio "ragionato", di gruppo, degli autori parte da due assiomi: la risposta alla crisi delle sinistre, all’effetto di "spiazzamento" che vivono, non sta né in un arroccamento negli ideologismi novecenteschi né nell’adesione assoluta alla modernità "distorta" di una globalizzazione liberista tanto più iniqua ed autoritaria perché in crisi; in secondo luogo, l’emergere dei movimenti altermondialisti è, dialetticamente, il discrimine e, insieme, il punto di riferimento essenziale.
L’interrogativo ha un’aspra radicalità: come si concepisce, allora, la rappresentanza politica? Come la si esercita? Aggiungo: basta una autoriforma della politica? Come si colloca essa dentro la ricostruzione di uno spazio pubblico, di una partecipazione democratica che si articola anche attraverso l’esperienza straordinaria delle "nuove municipalità", dei bilanci partecipativi, dei nessi amministrativi? Dei "beni comuni" come sottrazione di diritti e pulsioni sociali alla mercificazione? Si può partire da un asse di ricerca: esistono beni che non sono merci, il cui "valore d’uso" si ricollega al vissuto di una comunità non etnocentrica ma fondata sulla partecipazione, sull’autorganizzazione, sulla socializzazione? «Lo sforzo» allora, scrivono gli autori, «è quello di contrapporre all’universalismo del mercato un altro universalismo. Alimentare una nuova idea comune di destino, per disarmare i guardiani dell’ordine esistente: questo è il fine di una moderna rivoluzione». Non a caso, il capitolo si intitola "Abbiamo bisogno di nuovi eretici" e parte con le parole, aspre e dolci insieme, di S. Francesco d’Assisi «Indietro mercante: prima l’uomo». E’ da qui che parte la nuova traversata nel deserto. Perché la politica deperisce in tecnocrazia ademocratica ed autoritaria se viene separata dai sommovimenti democratici dei conflitti sociali e di comunità, dalla disobbedienza di massa nonviolenta (alla Frei Betto) come riscrittura della grammatica della legalità e della stessa liceità (il "vecchio" Marx già parlava di "diritto diseguale", di assenza di rapporto diretto tra legittimità formale e giustizia sociale. Che cosa ne pensa Cofferati?).
Vi è, nella sinistra, una tradizione culturale (forse maggioritaria) che avverte fastidio per l’autonomia dei movimenti; che guarda con sufficienza i movimenti considerandoli parzialità e minorità, utili al massimo al condizionamento. L’"autonomia della politica" è portata qui al suo punto limite. E’ errore speculare di segmenti del movimento l’«autonomia del sociale», che non si pone il tema (ineludibile, oggi) della trasformazione progettuale, della connessione tra soggetti e che può assumere derive autoreferenziali. La Gordimer ha avuto modo di dire, in una assise internazionale, con semplici parole, che «la propositività dei movimenti consiste nell’aver compreso che, nel mondo, sta dilagando una forma nuova, pericolosissima, di razzismo. Il razzismo globalizzato è il dato di fatto della politica internazionale; è il razzismo delle multinazionali (e dei governi che le appoggiano) contro i poveri, neri o bianchi che siano». Mi sembra centrale, per noi, la concezione della "democrazia meticcia", del superamento del concetto classico di cittadinanza, verso una cittadinanza transnazionale globale, un movimento cosmopolita, come luogo di raccordo e comunicazione tra "uguali e differenti". Il movimento, infatti (e Cancun con la contestazione del Wto ne è la metafora), ha squarciato il velo di quella grottesca campagna ideologica di occultamento dei meccanismi di sfruttamento tra i Nord e i Sud che presentava i rapporti sociali capitalistici come naturali, oggettivi, immodificabili.
Al di là (e, a volte, contro) i paradigmi novecenteschi, i movimenti altermondialisti rimettono a tema i percorsi della rivoluzione anticapitalista. Dai contadini curdi o palestinesi, agli operai di Detroit, agli "intoccabili" di Mumbay. Non solo condivido molto il libro; ma vorrei, con modestia, proseguire la "ricerca infinita" insieme ai suoi autori.
Liberazione