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Nigergate 3 : L’INCHIESTA. Pollari sapeva che il materiale acquistato da Saddam non era destinato al nucleare

Publie le martedì 1 novembre 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Guerre-Conflitti Governi Servizi segreti USA


Ma alla Casa Bianca preferì tacere.
Nigergate, il Grande Inganno sulle centrifughe nucleari
Lo strano scoop di Panorama che prese per buono il dossier uranio

di CARLO BONINI E GIUSEPPE D’AVANZO

È affare di date, la storia del coinvolgimento italiano nelle manipolazioni che giustificano la guerra irachena. Ne abbiamo già avuto la percezione. È ancora una data che sbroglia e svela il secondo capitolo del Grande Inganno.

9 settembre 2002. In quel giorno, nelle stanze del National Security Council, c’è un incontro segreto e molto strampalato, se si guarda alla trasparenza istituzionale.

Perché il direttore del nostro servizio segreto incontra un’autorità politica della Casa Bianca? Naturale che Nicolò Pollari incontri il direttore della Central Intelligence Agency. Ordinario che il direttore del Sismi incontri la sua autorità politica. Bizzarro che incontri l’autorità politica di un Paese straniero ancorché alleato: per questi meeting ci sono ministri e sottosegretari. Allora, di che cosa discute con Stephen Hadley?

Questo Hadley non è uomo da terza fila, alla Casa Bianca. Oggi è il consigliere per la Sicurezza Nazionale. Nel 2002 è il vice di Condoleezza Rice e "nodo" della rete "parallela" di intelligence voluta da Dick Cheney per rendere legittima la guerra a Saddam. E’ l’uomo che, soltanto per dirne una, si assume la responsabilità delle sedici parole, pronunciate da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione, che il 28 gennaio 2003 valgono il conflitto.

Si sa che Hadley, con Pollari, ragiona di armi di distruzione di massa. Legittimo chiedersi che cosa sappia Pollari, il 9 settembre del 2002, dell’uranio nigerino. Come egli stesso ammette, sa tutto. E’ informato dell’avventura di Rocco Martino. I suoi uomini addirittura gli stanno dietro. Conosce i passi del vice-capocentro del Sismi Antonio Nucera, che aiuta il vendifumo. Quel giorno, Pollari è nella migliore condizione per fare una scelta. Dire al vice della Rice che, per la Casa Bianca, è meglio lasciar cadere quella storia dell’uranio, perché è una bufala, perché quei due, Martino e Nucera, sono due impostori. O, al contrario, rafforzare le convinzioni dell’alleato. Magari con un accorto silenzio. Che cosa sceglie? Per saperlo torna buono vedere come si muove Pollari nell’altro caso affrontato nel colloquio con Hadley. E’ il dossier "centrifughe".

Appena 24 ore prima, 8 settembre 2002, Judith Miller ha raccontato, dalla prima pagina del New York Times, della minaccia nucleare custodita a Bagdad. "Negli ultimi 14 mesi - scrive la reporter - l’Iraq ha cercato di acquistare tubi in alluminio che, secondo i funzionari americani, devono essere utilizzati come rivestimento dei rotors delle centrifughe per l’arricchimento d’uranio".

Il 9 settembre 2002, dinanzi a Hadley, Pollari ha gli strumenti per affrontare anche questo aspetto della questione. Il Sismi, come ammette, ha "prove documentali dell’acquisto di tubi di alluminio da parte irachena". Vediamo di che cosa si tratta.

Sono tubi di alluminio 7075-T6. E’ il materiale preferito per un sistema di missili a basso costo (ogni tubo costa 17 dollari e 50 centesimi). Sono fatti di una lega estremamente dura, che li rende potenzialmente adatti come rotors di una centrifuga capace di separare i costituenti dell’uranio fissili da quelli non fissili. Non è un’operazione agevole perché poi le centrifughe devono essere migliaia (16.000) ed essere in grado di sostenere in sincronia rotazioni a velocità estremamente alte.

Come si sa, la Cia e anche il prudentissimo segretario di Stato Colin Powell si convincono che si tratta di materiale "dual use" destinato al programma nucleare iracheno. Powell sfodera tutta la sua esperienza di soldato. Dice: "Non sono un esperto di centrifughe, ma come veterano dell’esercito lasciatevi chiedere questo: perché gli iracheni si stanno dando tanto da fare per quei tubi che, se fossero razzi, andrebbero rapidamente in pezzi dopo il loro lancio?".

L’obiezione, incredibilmente, resta in piedi anche quando gli scienziati dell’Oak Ridge National Laboratory (con centrifughe, arricchiscono uranio per l’arsenale nucleare degli Stati Uniti) annientano la teoria di Powell. Sostengono che quei tubi sono "troppo stretti, troppo pesanti, troppo lunghi e facili a creparsi per essere utilizzati come componenti di centrifughe". Concludono gli scienziati di Oak Ridge: "Quei tubi servono alla costruzione di un particolare proiettile d’artiglieria".

Dunque, l’8 settembre 2002, Judith Miller rappresenta i tubi di alluminio come "la pistola fumante". Il giorno dopo, Pollari è seduto di fronte ad Hadley. Che cosa gli racconta? Pollari sta zitto. Non svela ciò che sa dei tubi di alluminio che tanto preoccupano (o entusiasmano) l’Amministrazione Bush. La disgrazia è che quei tubi - 7075-T6, lunghi 900 millimetri, diametro 81 millimetri, superficie dello spessore 3.3 millimetri - sono arnesi molto familiari per l’esercito italiano. Sono i proiettili di artiglieria del missile da 81 mm del sistema aria-terra "Medusa", adottato dagli elicotteri di Esercito e Marina. In realtà, gli iracheni stanno soltanto tentando di riprodurre delle armi che hanno imparato a conoscere nei lunghi anni della collaborazione economico-militare-nucleare tra Roma e Bagdad (i migliori ufficiali dell’Esercito e dell’Aeronautica irachena sono stati addestrati nel nostro Paese negli anni Ottanta). Lo stato maggiore di Saddam ha bisogno di duplicarli, per dir così, perché le scorte sono state conservate all’aperto e sono ormai rugginose. Ecco la ragione dei nuovi acquisti in alluminio anodizzato.

Perché Pollari non spiccica parola? Se si pone la domanda a Greg Thielmann, ex capo del bureau di intelligence del Dipartimento di Stato, si ottiene questa risposta: "Ma voi davvero non avete capito perché l’intelligence militare italiana non ci ha dato nessuna indicazione che consentisse di escludere definitivamente che quei tubi servissero per un programma nucleare? Io un’idea ce l’ho. Il Sismi, come la Cia e come l’intera comunità dell’intelligence anglo-americana, deve e vuole compiacere i falchi della nostra Amministrazione". Il giudizio è sonoro come una fucilata. Sono le date a offrire una conferma difficile da eludere.

8 settembre 2002, Judith Miller lancia il sasso.
9 settembre 2002, Hadley incontra Pollari.
11 settembre 2002, l’ufficio di Stephen Hadley chiede alla Cia un nullaosta che permetta al presidente degli Stati Uniti di utilizzare in un discorso pubblico le informazioni sulla vendita dell’uranio nigerino. In particolare, per quel che riferisce il rapporto del Selected Committee on Intelligence la richiesta che arriva alla Cia dal gabinetto del National Security Council chiede testualmente a George Tenet che "George W. Bush sia autorizzato a dire: "L’Iraq ha compiuto diversi tentativi di acquistare tubi di alluminio rinforzato da utilizzare per centrifughe per l’arricchimento di uranio. Sappiamo inoltre che, nell’arco degli ultimi anni, l’Iraq ha ripreso i tentativi per ottenere grandi quantità di uranio ossidato noto come yellowcake. Componente necessaria al processo di arricchimento"". La Cia dà il suo nullaosta (a Cincinnati, Ohio, il 7 ottobre 2002, la frase autorizzata cade dal discorso presidenziale.

Il giorno prima, Langley ne raccomanda la cancellazione: "L’intelligence è debole. Una delle due miniere citata dalla fonte come luogo di estrazione dello yellowcake risulta allagata. L’altra è sotto il controllo delle autorità francesi").

Bisogna ora chiedersi che cosa combina Pollari. Questa ingarbugliata faccenda dello yellowcake e delle centrifughe si impasticcia intorno ai documenti farlocchi di Rocco Martino. Chi li ha dati a chi, quando, come? Chi li ha letti e ne ha taciuto l’infondatezza? Chi ha creduto nella loro fondatezza e li ha "disseminati"? L’affare ha il suo fuoco in queste risposte, ma anche nelle parole che non vengono dette. Gli italiani sanno che Rocco Martino è un cialtrone. Hanno ben presente che le uniche carte autentiche di quel dossier sono vecchia intelligence, sottratta all’archivio della divisione del Sismi che si occupa delle armi di distruzione di massa. Pollari lascia correre la frottola per il mondo. Non "brucia" Rocco Martino che bussa alla porta dell’MI6 inglese. Anzi, lo accredita come "fonte attendibile". Non gela gli entusiasmi dell’amico americano Michael A. Ledeen e dell’Office for Special plans del Pentagono. Semplicemente ammutolisce mentre l’imbroglio si fa strada. Anzi, quando apre bocca, non spegne né delude il desiderio americano. Così avviene per i tubi di alluminio. Dopo una "brillante operazione", il Sismi ne viene materialmente in possesso. E’ un’intelligence militare. Anche un soldataccio capirebbe che si tratta di "roba nostra", dei proiettili del "Medusa ’81". Al Sismi naturalmente lo capiscono. Ma, anche in questo caso, il 9 settembre 2002 Pollari si chiude dinanzi ad Hadley in un riservato silenzio. Fa di più.

12 settembre 2002. In edicola arriva Panorama. Nel lungo servizio titolato "La guerra? E’ già cominciata", si raccolgono le rivelazioni decisive e inedite al mondo sul riarmo nucleare iracheno. Nessuno ha ancora parlato di uranio. Tantomeno di 500 tonnellate. Lo farà per la prima volta Tony Blair, ma soltanto il 24 settembre 2002. Due settimane dopo l’incontro Pollari-Hadley. Dodici giorni dopo lo "scoop" di Panorama. Il dossier di 50 pagine del governo di Londra afferma che l’Iraq sta cercando di acquisire uranio in Africa. Blair sostiene che "l’Iraq ha cercato di comprare significative quantità di uranio da un paese africano nonostante non abbia nessun programma di nucleare civile che lo richieda". Ancora oggi, il ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, ripete che il "dossier italiano" non era l’evidenza che ha giustificato queste parole; che l’MI6 è in possesso di intelligence acquisita precedentemente. Queste "evidenze" non sono mai saltate fuori. "Se saltassero fuori - dice a Repubblica una fonte di Forte Braschi e sorride - si scoprirebbe facilmente e con qualche rossore che è intelligence italiana raccolta dal Sismi alla fine degli anni ’80 e condivisa con il nostro amico, Hamilton Mac Millan".

Non è, dunque, la loquacità a indicare le responsabilità italiane dello yellowcake. Sono i silenzi. Abbiamo visto come tace (o è costretto a tacere) il Sismi. Povero Sismi, non è mica il solo. Nessuno dei protagonisti di questo garbuglio, pur sapendo, fiata. Tace Panorama. Quando la direzione del magazine, di proprietà del capo del governo, deve ricostruire i contatti con Rocco Martino (che ha cercato di vendere l’imbroglio a Segrate) omette di ricordare che le informazioni contenute nel dossier truffaldino, già sono state pubblicate il mese prima. Il direttore del settimanale, inspiegabilmente, verifica quei documenti soltanto con l’ambasciata americana e non con il governo né tantomeno con le eccellenti fonti del servizio segreto italiano a cui, come dimostra lo "scoop" di settembre, ha accesso. Non trova alcun interesse nel raccontare, con un secondo potenziale "scoop" mondiale, che la storia su cui si sta imbastendo una guerra è falsa. Tace anche Palazzo Chigi, naturalmente. Il ruolo del consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi, Gianni Castellaneta, è stato essenziale nei rapporti tra il nostro Paese e quel network parallelo che Dick Cheney crea con il finanziamento di Ahmed Chalabi dell’Iraqi National Congress, con la raccolta dell’intelligence "aggiustata" dall’Office for Special Plans, con la diffusione mediatica di queste manipolazioni attraverso il "gruppo Iraq" (che si vede al lavoro anche nel caso Miller/New York Times). Ma chi ha sentito mai Castellaneta dire una parola e chi gli ha mai chiesto in un luogo istituzionale di dirla?

Sta chiotto Gianni Letta. Quando affiora la verità del falso dossier italiano, il sottosegretario con delega ai servizi, contrariamente a quanto si legge nelle inesatte note del governo, si appella al segreto di Stato. Sostiene che nessuna documentazione può essere offerta al controllo del Parlamento perché si metterebbero "in pericolo fonti dei servizi". Quali fonti? Rocco Martino, carabiniere fallito, spione disonesto, doppiogiochista? O Antonio Nucera, vicecapo del centro Sismi di viale Pasteur che trafuga (o è costretto a trafugare), dall’archivio della sua Divisione, intelligence ammuffita per costruire "il pacco"?

E’ evidente che, a frittata rovesciata, qualcosa bisogna pur raccontare dopo tanto silenzio. Pollari si muove nell’estate del 2004. Discretissimo, diventa improvvisamente loquacissimo. Apre addirittura il suo ufficietto a Palazzo Baracchini. Pollari se ne sta in una stanzetta buia, dietro uno scrittoio stracolmo di carte. Carte, carte, carte ovunque. Alla sua sinistra, c’è un altro scrittoio coperto di dossier come uno scoglio dall’onda. Spiega a Repubblica (è il 5 agosto 2004): "Non mi fido di nessuno. Le carte le voglio leggere io...". L’uomo appare in difficoltà. Sente sul collo l’alito maligno dei reporter americani dell’Atlantic Monthly. Si rigira tra le mani una richiesta di colloquio recapitata dalla televisione americana Cbs all’ambasciata italiana a Washington.

Si chiede: "Che cosa vogliono questi da me? Chi è che li sta informando? La Cia? L’Fbi? Qualche transfuga della Cia? Qualche nemico del Fbi?". Sa che Rocco Martino è stato agganciato dai producer di 60 minutes e teme, come una catastrofe personale, la confessione del vendifumo davanti ai microfoni. Ora Pollari deve guadagnare una via d’uscita dall’impiccio e gli sembra di aver trovato il modo per uscire dall’angolo. Dice a Repubblica: "Sono stati i francesi del Dgse a trarre in inganno gli americani. Noi non c’entriamo nulla". Estrae da una cartellina una stampata in power-point multicolore (i colori sono giallo, rosso, viola, azzurro, verde). La cartuscella dovrebbe dimostrare il "ruolo dell’intelligence francese nell’affaire Niger". Mai sembra convincente.

E’ musica che suona stonata anche oggi. Il tempo ha dimostrato in modo solido l’infondatezza della "pista francese", farfallina già in partenza. Infatti, come accerta il rapporto del Senato americano, due settimane prima dell’inizio della guerra, il 4 marzo 2003, i francesi avvertono Washington che i documenti in loro possesso sono falsi perché sono gli stessi che Rocco Martino ha rifilato a Parigi. Non è stata mai rintracciata (né Pollari la rivendica) un’analoga nota italiana che possa dare uno stop all’irruenza di Dick Cheney. Il Sismi, come il governo, sa che l’intelligence contro l’Iraq è tutta fuffa. Tacciono. Come precipita nel mutismo l’intero circuito politico italiano. E’ comprensibile il silenzio della maggioranza, ma l’ozio dell’opposizione può esserlo di fronte a una manipolazione che addirittura provoca una guerra? L’unico atto che si può registrare è la richiesta di una commissione di inchiesta presentata dall’Unione, una pretesa soltanto burocratica perché, una volta licenziata, può essere dimenticata.

Così, mentre negli Stati Uniti si contano tre inchieste indipendenti (Cia-gate; Nigergate; cospirazione di Larry Franklin, funzionario dell’Office of Special plans), in Italia non si muove foglia. Se si ha la ventura di incontrare il pubblico ministero di Roma, Franco Ionta, per sapere almeno - così per curiosità - come è finita l’inchiesta su quel vendifumo di Rocco Martino, il magistrato spiegherà: "Sì, ho interrogato questo Martino. Un truffatore. In mezz’ora ho chiuso il verbale... Che volete che mi dicesse... Ora la richiesta di archiviazione è nelle mani del gip... Trattasi di buffonata...". Una buffonata italiana che può annegare nel silenzio. Della politica, dell’informazione, della magistratura. Così vanno le cose in Italia.

http://www.repubblica.it/2005/j/sez...

Messaggi

  • L’INCHIESTA

    Roma sapeva dal 2003 che non c’erano armi

    I servizi erano al corrente che l’Iraq non aveva super armi

    In campo con l’intelligence così l’Italia entrò in guerra

    di CARLO BONINI e GIUSEPPE D’AVANZO

    ROMA - La terrazza dell’Eden di via Ludovisi è inondata di sole. L’alto dirigente del Sismi racconta dell’operazione segreta condotta sul campo in Iraq, alla vigilia della guerra, da una squadra di venti agenti di tre direzioni (Intelligence militare, Operazioni, Antiterrorismo) del nostro servizio segreto. "Quando abbiamo cominciato ad avvicinare generali e ufficiali dell’esercito regolare e funzionari del Baath per invitarli alla diserzione, ci siamo trovati di fronte a uomini disperati. Pronti a barattare il loro patrimonio di informazioni in cambio della promessa di una sopravvivenza fisica e, in qualche caso, politica nel dopoguerra. Siamo così riusciti a comunicare in tempo reale informazioni in loro possesso, diventate poi decisive nel teatro delle operazioni. E’ accaduto, per fare un esempio, la notte stessa dell’attacco. Anzi, la mattina all’alba. Erano più o meno le cinque e mezza del 20 marzo quando cominciano a cadere su Bagdad bombe di precisione e missili Tomahawk.

    "Il Comando alleato si attende una reazione immediata, come è giusto. Noi italiani siamo sul terreno e abbiamo "occhi" per vedere. Le nostre "fonti" sono allo Stato Maggiore e ci avvertono che sono state attivate le batterie missilistiche nell’area di Bassora. Saddam tenterà di colpire Kuwait City. Le batterie vengono neutralizzate. Dove noi non siamo riusciti a penetrare, sono al lavoro le "fonti" della rete sciita, che ci ha aiutato molto...". L’uomo si fa orgoglioso e serio come se volesse accertarsi che le sue parole siano ben comprese.

    "È stata una guerra di notizie. E questa volta noi ne avevamo di buone, dirette e di prima mano. Perché eravamo lì, sul posto. Notizie importanti come quella raccolta dai nostri e confermata dagli sciiti che i ponti minati di Bagdad non sarebbero saltati. Notizie più minute, come la consistenza numerica delle colonne corazzate irachene arretrate dal fronte di Kirkuk verso Bagdad. Notizie essenziali, come la localizzazione del rifugio di Abu Abbas (il palestinese che guidò il sequestro dell’Achille Lauro, arrestato nel 2003 e morto in un campo di prigionia americano nel marzo del 2004, ndr) a Bagdad. Gli americani sono entusiasti. Non si aspettavano da noi una così invasiva, efficace penetrazione nell’Esercito di Saddam. A Washington, siamo delle glorie... Il Pentagono ha scritto una lettera con molte lodi a Berlusconi...".

    * * *

    Quel che il "funzionario della presidenza del Consiglio" non dice né può dire è che la nostra intelligence e quindi il governo italiano (come l’Iraqi National Congress e quindi il Pentagono) sanno con certezza per lo meno dal gennaio 2003 e (con molte probabilità, dal dicembre del 2002) che, negli arsenali di Saddam Hussein, non ci sono armi di distruzione di massa. Non c’è l’ordigno nucleare. Non ci sono i missili a lunga gittata. Non c’è la possibilità di armare testate missilistiche con veleni biologici e chimici. C’è soltanto un esercito che non vuole combattere e uno Stato Maggiore che attende di arrendersi al miglior prezzo possibile.

    È questa l’informazione più preziosa che gli agenti del Sismi, integrati nel network sciita del Consiglio supremo della rivoluzione dell’ayatollah Muhammad Baqir al-Akim e nella rete di spie dell’Iraqi National Congress di Ahmed Chalabi, affidano al Comando unificato della coalizione a Doha. L’esercito iracheno è di cartapesta, malamente armato anche per una modesta guerra convenzionale. Né può essere altrimenti dopo l’estenuante conflitto con l’Iran, l’invasione del Kuwait e la guerra del Golfo del 1991, la lunga fase delle no-fly zones, dell’embargo, delle sanzioni. Nei colloqui con gli agenti italiani, gli ufficiali iracheni, addestrati nelle nostre accademie militari e da Finmeccanica e Selenia, diventati nel corso del tempo generali, liquidano con un amaro sorriso di scherno l’ipotesi che siano in possesso di armi di distruzione di massa.

    Spiegano ai nostri come i carri armati e i veicoli da combattimento sono relitti della guerra del 1980/1988 contro Teheran, privi di parti di ricambio, molto simili ad arnesi arrugginiti e inutilizzabili. Svelano ai nostri uomini che le Forze Armate di Saddam - dalla bassa forza allo Stato Maggiore - hanno il morale sotto le scarpe, un equipaggiamento approssimativo, in qualche caso nemmeno le scarpe. Sono informazioni decisive. Le forze della coalizione possono dare il via all’intervento senza l’angoscia di chi si prepara a "perdere" 37 mila uomini, come prevede il calcolo statistico sul tasso di perdite di una guerra convenzionale tradizionale (il 15 per cento di 250 mila uomini).

    Così, mentre dinanzi all’opinione pubblica mondiale, ancora nel marzo e nell’aprile 2003, viene agitato lo spettro di un’aggressione chimica-biologica, la campagna militare può essere condotta con la convinzione che quelle armi non ci sono. La loro esistenza è soltanto un miracolo della propaganda e della disinformazione.

    * * *

    Ai "tecnici" della guerra la circostanza non sfugge. "A meno di non ammettere che i generali e i politici americani fossero incompetenti o pazzi o criminali - annota il generale Fabio Mini ("La guerra dopo la guerra", Einaudi 2003) - se ci fosse stato davvero il rischio d’impiego di armi di distruzione di massa, le predisposizioni operative e tattiche sarebbe state diverse".

    Una serie, anche limitata, di attacchi chimici o biologici, avrebbe infatti potuto produrre perdite elevatissime. Sarebbero state necessarie altre protezioni in aggiunta alla semplice maschera antigas, equipaggiamenti più efficienti e moderni di quelli schierati dalla compagnie NBC (difesa nucleare, biologica, chimica). Le predisposizioni operative, logistiche e quelle sanitarie sarebbero state ben diverse e non si sarebbero dovute vedere le colonne compatte di camion e mezzi cingolati che, dal primo giorno, si sono visti avventurarsi nel deserto iracheno. "Nelle condizioni in cui i soldati della coalizione si sono visti combattere e muovere (fuori dai portelloni dei carri, con le botole aperte, senza sovravestiti protettivi, in colonne immense con distanza intraveicolare quasi nulla) era chiaro che, a livello militare, era stato escluso a priori sia l’attacco con le armi di distruzione di massa sia l’attacco da parte di missili e artiglierie pesanti che, in quelle condizioni, avrebbe fatto dei danni rilevanti con poche granate".

    Conclusione di Fabio Mini. "Dal punto di vista prettamente militare, doveva quindi essere stato accertato che l’Iraq o non disponeva di armi di distruzione di massa o non aveva i vettori per impiegarle o che entrambi erano stati distrutti prima della guerra e che, se aveva tutto ciò, si sapeva che non le avrebbe impiegate".

    Accertare e far sapere che non c’è pericolo. È stata questa la battaglia "invisibile" del Sismi. L’Esercito iracheno non avrebbe combattuto perché non voleva combattere di nuovo un conflitto senza speranza e - anche nell’ipotesi che qualche "testa calda" e irriducibile avesse voluto - non aveva i mezzi per farlo.
    Dunque, nella guerra contro l’Iraq - guerra d’intelligence che costringe o convince un nemico pezzente a vendersi senza combattere - l’Italia è in campo. A tutto diritto la si può annoverare nel gruppo di testa della forze della coalizione, appena dopo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia.

    * * *

    Silvio Berlusconi, prima di convincere innanzitutto se stesso di non aver mai voluto la guerra (come è accaduto in questi giorni), la guerra l’ha fatta per davvero. Discreta, segreta. Il 23 aprile del 2003 non nega che l’Italia abbia combattuto in prima fila. Se ne vanta addirittura. Il presidente del Consiglio è a Portorotondo quando legge del "Sismi in Iraq" (la Repubblica).

    Ammette: "È vero, e credo che siamo stati molto utili alle democrazie occidentali. La nostra posizione nella coalizione non è stata mai in dubbio e quindi la nostra intelligence ha collaborato con gli alleati". Parole inequivocabili che permettono di sottolineare due punti fermi. Facciamo parte della coalizione che combatte in Iraq per il cambio di regime. Alla guerra partecipiamo, non con truppe nel deserto, ma con un lavoro dell’intelligence che è stato molto utile.

    Silvio Berlusconi sa essere un rumoroso gaffeur. Quindi, anche onesto. Manda per aria, con due frasi, l’architettura di doppiezze politiche e imbrogli istituzionali che ha definito il ruolo dell’Italia nella crisi irachena. La formula della non belligeranza, scelta dopo qualche ondeggiamento, assegna all’Italia soltanto un sostegno politico all’alleato americano senza la partecipazione diretta alle operazioni militari.

    Ma il lavoro invisibile e segreto del Sismi sul terreno, in appoggio alle truppe d’invasione, è "belligeranza" o "non belligeranza"? È combattimento o, strapazzando un po’ il vocabolario, si può dire appoggio politico? Se non si è farisei, è difficile avere dubbi. In una guerra che, fin dalla fabbricazione a tavolino delle ragioni per dichiararla, è stata soprattutto una gigantesca operazione di disinformazione e intelligence, il lavoro degli agenti del Sismi che per quattro mesi, sotto falsa identità a Bagdad, barattano il tradimento dei gerarchi di Saddam e misurano l’inconsistenza della difesa militare irachena e l’assenza delle armi di distruzione di massa è partecipazione alla guerra. È combattere. Significa stare in prima linea.

    Negarlo è ingannare il Paese e ha lo stesso sapore della menzogna che consente alle istituzioni e al governo di nascondere la violazione degli articoli 10 e 11 della Costituzione, o della fanfaluca che permette al Parlamento di non considerare calpestato il voto che impegna la nostra presenza militare in Iraq all’intervento umanitario e di pace (peace-keeping, peace-making, peace-enforcing) una volta conclusi i combattimenti, che - come si sa - ancora oggi proseguono nelle forme del terrorismo, della guerriglia, della guerra civile.

    Il Sismi ha combattuto in Iraq, dunque. La considerazione cade in un vuoto politico. Si può ora soltanto osservare quali sentieri inesplorati apra a un governo e al lavoro dell’intelligence questa straordinaria vittoria sulla verità; quale prezzo paga la qualità della nostra democrazia.

    * * *

    Le parole di Berlusconi in Sardegna risuonano troppo avventurose nella Capitale. Palazzo Chigi si precipita a correggerle con una nota. La nota deve essere però accorta e saggia. Minimizzando, deve saper dissimulare la cosa (la partecipazione alla guerra) e lanciare un avvertimento politico: tutti sapevano. Quindi, anche se una violazione della "non belligeranza" c’è o potrebbe essere contestata, chi può lanciare la prima pietra? La presidenza del Consiglio conferma: "Il servizio ha curato, come da suo dovere istituzionale, attività di intelligence e non certo operazioni militari. Pertanto si esclude qualunque partecipazione ad operazioni belliche, quali interventi sul terreno per illuminare obiettivi militari".

    Se si esclude che a Palazzo Chigi credano che l’espressione "illuminare obiettivi militari" significhi accendere la luce di una torcia - o che nel palazzo del governo non sappiano che, da che mondo è mondo, non c’è azione militare senza attività di intelligence - il comunicato riconosce che il Sismi è stato all’opera in Iraq. Naturalmente non di sua iniziativa. "Si conferma, prosegue la nota, che della natura svolta dal servizio sono informati il governo e il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti".

    Quindi il governo sa e sa anche il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti presieduto da un esponente dell’opposizione, l’ex-ministro dell’Interno Enzo Bianco. Tutti (governo, maggioranza, opposizione, organi di controllo) sono a conoscenza di una storia italianissima per compromessi e furbizia che così va raccontata: formalmente stiamo lontani dalla guerra; siamo non belligeranti; il nostro impegno sarà soltanto umanitario. In realtà, aggirando i vincoli costituzionali, siamo sul campo di battaglia. Non con le armi, i soldati e i carri armati (le finanze disastrate e il mammismo nazionale, oltre che la Carta, non ce lo consentono), ma con le intrusioni e le infiltrazioni di agenti segreti in azioni, organizzate dal Pentagono, che contano sulla collaborazione degli sciiti dello Sciri e dell’Iraqi National Congress.

    L’assoluto oblio che, in capo a poche ore, nasconde all’opinione pubblica e al dibattito politico la conferma della presenza della nostra intelligence militare nel "teatro di guerra" con un ruolo risolutivo per le forze della coalizione anglo-americana è (con la "veicolazione" del falso dossier uranio) lo spartiacque tra un prima e un dopo del nostro servizio segreto e della nostra politica della sicurezza. È l’inizio di una stagione. È un’epifania. Si può dire che la commistione con gli uomini e i metodi del Pentagono produce anche in Italia quel che già è stato seminato e raccolto negli Stati Uniti: la politicizzazione dell’intelligence.

    L’operazione, come primo effetto, confonde la trasparenza del quadro di comando. Si deformano le linee dirette di responsabilità politica (Berlusconi-Letta-Martino-Pollari). Su Pollari pesano ora i "piani" di Washington e le influenze di un gruppo di pressione ben organizzato installato all’interno del Pentagono (Office for special Plans). Lo slittamento di obiettivi e metodi si specchia anche nella variazione del quadro di riferimento istituzionale. Il direttore del Sismi non risponde più al ministro della Difesa, che pure gli rifila la presenza in Italia di Michael Ledeen.

    Lavora, di concerto, con il consigliere diplomatico della presidenza del Consiglio Gianni Castellaneta (di fatto, il "consigliere per la sicurezza nazionale italiano", con un filo diretto con Condoleezza Rice e Stephen Hadley). È, senza mediazioni o collegialità, alle dipendenze di un Berlusconi che dialoga direttamente con Bush. Al presidente degli Stati Uniti, il premier italiano consegna, vantandosene, intelligence e ne riceve indicazioni che diventano "agenda" per il nostro servizio. Mentre Gianni Letta intrattiene, con modi cortesi, l’opposizione coinvolgendola in operazioni di cui svela l’inessenziale.

    In questi giorni di furiose polemiche e di smentite che non smentiscono, nessuno sembra aver voglia di "guardare la palla". Ci si accapiglia sul destino di Nicolò Pollari che, al contrario, appare il bruscolo nell’occhio. Non la trave. Poteva Pollari decidere da solo di mandare i suoi uomini in guerra? Poteva, senza un’indicazione o una copertura politica, avventurarsi lungo il sentiero assai sdrucciolevole della disinformazione e dei dossier fasulli? È utile al governo tenere la testa di Nicolò Pollari sul ceppo. Concentrata l’attenzione sul direttore del Sismi, o sprofondato il suo destino nell’eterno conflitto tra apparati (come pare credere anche una parte dell’opposizione), si possono non prendere in esame la pianificazione della guerra, l’intelligence manipolata che l’ha giustificata, l’impiego dei nostri uomini direttamente sul campo di battaglia. Si può nascondere chi, di quelle operazioni, ha avuto la responsabilità politica. Il ministro della Difesa Antonio Martino, il "consigliere per la sicurezza" Gianni Castellaneta, lo stesso presidente del Consiglio. È l’Italia a cui piace far volare gli stracci.

    (1 novembre 2005)

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