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Breve riassunto delle mie idee sul partito
di Mimmo Porcaro
La funzione principale dei partiti del movimento operaio, contadino e popolare è stata quella di trasformare una parte consistente delle classi subalterne in classi (potenzialmente o effettivamente) dirigenti.
Questa funzione principale veniva svolta attraverso varie funzioni secondarie: la socializzazione delle masse, la costruzione di reti di economia cooperativistica, la produzione culturale, la propaganda ideologica, la rappresentanza parlamentare, la direzione politica.
Ma fin dall’inizio ci si è accorti che tutte queste funzioni non possono essere svolte solo dal partito. Esse vengono svolte (in tutto o in parte) anche da altri organismi, a volte preesistenti al partito e poi subordinati ad esso, a volte creati dal partito come organismi relativamente autonomi.
Così, fin dall’inizio, il partito “vero e proprio”, ossia l’organismo che assicura la trasformazione delle classi subalterne in classi dirigenti, “si divide in due”. Da una parte esiste il partito formale, identificato da uno statuto, da procedure regolari di affiliazione, da un’ideologia ufficiale, da un nome (la SPD, il PCI etc.). Ma oltre ad esso esiste il partito reale, composto da uno o più partiti formali e da tutti gli altri organismi (nazionali o internazionali) che svolgono in un modo o nell’altro funzioni di partito: associazioni popolari, sindacati, cooperative, gruppi culturali, giornali e case editrici, circoli intellettuali ed anche pezzi degli apparati di stato. I diversi organismi che compongono il partito reale non sono uniti da un vincolo statutario, ma da un vincolo politico, meno saldo e più mutevole.
Le vicende di ogni partito formale possono essere comprese solo studiando l’insieme del partito reale in cui esso si situa. Ad esempio, sarebbe impossibile capire la storia del PCI nei suoi ultimi anni, se non si considerasse anche il ruolo del giornale “borghese progressista” La Repubblica, che in alcuni momenti importanti ha svolto un ruolo sia di direzione politica interna al PCI stesso che di propaganda ideologica. O la storia dei suoi anni precedenti senza riferirsi all’influenza del PCUS, oppure alla presenza di correnti filocomuniste all’interno del PSI, anch’esse componenti del partito reale che ruotava attorno al PCI.
E, ancora, la difficile transizione italiana iniziata dopo il 1989 non è stata gestita dai partiti formali (che erano in quel momento in profonda crisi) ma da un partito reale composto dalla Confindustria, da alcuni ministeri (in particolare quelli economici), dai sindacati, da giornali, da pezzi di partiti e ceto politico. Un partito reale che aveva il suo centro direzionale nella Banca d’Italia.
La presenza del partito reale emerge in maniera visibile nei periodi di crisi sociale e di asincronia tra dinamiche sociali e dinamiche politiche (l’ idea del partito reale è maturata in me proprio leggendo le pagine che Gramsci dedica alla crisi della politica italiana). Ma il partito reale non nasce solo dalla crisi, ed è piuttosto l’effetto del funzionamento “normale” di un sistema sociale. E’ l’effetto della complessificazione sociale; dell’emergere degli specialismi che rendono impossibile gestire la società ricorrendo ai soli saperi che si formano nel partito e nello Stato; della proliferazione degli attori sociali e politici; della politicizzazione di numerosi ambiti di vita. Tutto ciò fa sì che la politica può sorgere ovunque e può essere interpretata anche da chi non si presenti immediatamente come soggetto “generale”. Cosa che sfalda l’idea del soggetto politico unico.
Ogni partito significativo, ovvero ogni partito che svolge un ruolo importante all’interno di una società, è quindi sempre un partito reale. Se non lo è, non ha nessuna possibilità di avere una funzione egemonica. D’altro canto, il partito reale è quasi sempre formato anche da uno o più partiti formali, ma può anche, in determinati momenti, farne a meno, dandosi organismi di coordinamento e direzione ad hoc, più o meno stabili o mutevoli. Ovviamente, la presenza di efficaci partiti formali può rafforzare il partito reale, ma solo se i primi sanno valorizzare pienamente le risorse offerte dal secondo.
La storia dei partiti è la storia della dialettica tra partito formale e partito reale. E si tratta proprio di una dialettica “quasi hegeliana”, nel senso che, proprio per sviluppare i compiti che la società gli ha affidato, e che da solo non può svolgere, il partito formale deve connettersi al suo “opposto”, il partito reale.
Si può dire che la più recente evoluzione dei partiti segna la vittoria del partito reale sul partito formale, nel senso che, a causa dei profondi processi sociali appena ricordati, gli organismi diversi dal partito formale sono diventati sempre più importanti e sempre più autonomi, sempre più capaci di azione politica. La stessa direzione politica dei partiti è sempre di più l’effetto della mediazione continua tra i diversi organismi del partito reale, ciascuno dotato di una propria visione strategica. E questo vale sia per i partiti “borghesi” che per i partiti “proletari”.
In questo quadro, i vecchi e i nuovi partiti formali che fanno o faranno parte del nostro “fronte” dovranno probabilmente assumere la caratteristica di quello che io chiamo “partito connettivo di massa”. Cerco di spiegare che cosa intendo con questo termine.
I partiti operai e più in generale i partiti della sinistra del Novecento hanno subito, a grandi linee, la seguente evoluzione. Nascono come partiti di integrazione di massa, ossia come partiti la cui funzione fondamentale è quella di socializzare le masse e di inserirle, come protagoniste, nel sistema istituzionale dello Stato, per modificarlo radicalmente. A poco a poco le energie dei partiti si indirizzano soprattutto verso l’arena elettorale, e così essi si trasformano in partiti elettorali di massa, delegando ad altri apparati (organismi di massa, scuola pubblica, televisione) le funzioni di socializzazione. Per sua logica interna il partito elettorale di massa diviene partito elettorale e basta: le funzioni di analisi della realtà, di propaganda ecc., prima svolte soprattutto dai militanti, vengono ora svolte da professionisti ed esperti, molto spesso esterni al partito.
A conclusione del processo i partiti si presentano come organismi ristretti, verticistici, costruiti per appoggiare questo o quel leader, con una forte preponderanza dei membri del gruppo parlamentare e, in ogni caso, dei gruppi interni alle istituzioni. Le funzioni di socializzazione sono completamente abbandonate. L’elaborazione teorico-culturale, la conoscenza della società e la propaganda conoscono significativi processi di outsourcing. I partiti sono ancora decisivi nella selezione del personale politico, nella loro legittimazione mediante le elezioni, nel procacciamento e nella distribuzione di risorse finanziarie (e ciò conferisce loro un notevole potere). Ma (e questo è il punto decisivo per valutare il peso del partito nella società) il personale politico è sempre meno di origine partitica, e proviene dalle imprese, dagli apparati di Stato, dalla “società civile”.
Anche i partiti della sinistra radicale non sfuggono completamente a questo schema: pur presentandosi formalmente come partiti di massa, essi non lo sono più. E non solo perché sono piccoli: ma soprattutto perché la socializzazione delle masse avviene altrove, ed essi raccolgono soprattutto militanti, mentre gli aderenti non militanti, ossia quelli che frequentano il partito quasi solo per ragioni culturali e sociali, sono sempre di meno. I partiti della sinistra radicale, anche se funzionano formalmente come partiti di massa, sono spesso “moderni partiti di quadri”, che delegano all’esterno moltissime delle funzioni che erano tipiche del partito di massa.
In queste condizioni, i partiti della sinistra radicale hanno due vie: o quella di tentare di divenire di nuovo dei veri e propri partiti di massa; o quella di prendere atto dell’impossibilità attuale di essere l’unico centro di socializzazione e l’unica modalità di azione politica, e quindi di scegliere di svolgere una funzione di connessione fra i diversi organismi autonomi in cui oggi si articola la vita politica. Quest’ultima via, (che, nelle attuali condizioni e nella nostra collocazione geografica, mi sembra la più realistica), è appunto quella del partito connettivo, che costruisce un rapporto politico trai diversi organismi che formano il partito reale.
La formazione dei partiti connettivi è favorita dai paralleli processi di trasformazione dei movimenti. I movimenti non sono più un semplice aggregato momentaneo destinato a sciogliersi nella società o a trasformarsi in partito. Sono piuttosto il frutto delle dinamiche di diverse istituzioni di movimento, di diverse associazioni che svolgono molte delle funzioni una volta svolte dai partiti. Bisogna sottolineare il fatto che la differenza trai partiti formali e queste istituzioni di movimento non sta nel fatto che i primi sono stabili e le seconde sono transitorie, né nel fatto che i primi hanno una vocazione “generalista” mentre i secondi hanno propensioni particolaristiche. Come dimostrano i movimenti di questi ultimi anni, le istituzioni di movimento hanno spesso natura stabile e continuativa, ed hanno anche una vocazione generalista, o perché nascono fin da subito con questa vocazione, o perché ne scoprono la necessità nel corso della mobilitazione. La differenza sta piuttosto nel fatto che i primi sono orientati soprattutto alla trasformazione dello Stato, mentre i secondi sono orientati soprattutto a trasformazioni sociali concrete ed immediate.
La nuova forma politica del movimento operaio e del movimento di emancipazione sociale, ossia il nuovo partito reale che consentirà alle classi ed agli individui oppressi di divenire processualmente capaci di determinare, per quanto possibile, il proprio destino, nascerà dall’intreccio tra partiti connettivi di massa e istituzioni di movimento capaci di iniziativa politica. Un intreccio che deve basarsi su un presupposto irrinunciabile: nessuno dei componenti del partito reale ha per natura una funzione dirigente. La stessa connessione degli elementi del partito reale può essere svolta sia dal partito formale (come partito connettivo) sia da questa o quella istituzione di movimento: ciascuna di esse è infatti capace, in linea di principio, di “guidare” a seconda dei momenti, la coalizione del partito reale.
E’ il caso di notare come, in un contesto di molteplicità degli attori e di pluralismo ideologico ed organizzativo (che è la condizione necessaria, pur se insufficiente, della democrazia all’interno di ciascun componente del partito reale), la presenza di gruppi dirigenti, stabili o momentanei, capaci di svolgere una funzione di indirizzo e di intervenire sui punti decisivi di una congiuntura sociale e politica (ossia la funzione tipica dell’avanguardia) non costituisce affatto una minaccia, ma un’arma in più. La funzione di direzione politica, quando non sia attribuita per sempre ad una sola istituzione (come il partito) e non dia luogo ad una casta intoccabile di dirigenti, può finalmente essere svolta senza la paura che essa dia necessariamente luogo alle concentrazioni di potere che tanto hanno danneggiato in passato il vecchio movimento operaio, socialista e comunista.
Nelle attuali condizioni sociali e politiche si può finalmente valorizzare appieno un fenomeno che è sempre stato presente in ogni esperienza politica, ma che è sempre stato visto con diffidenza. Ossia la formazione di gruppi dirigenti “di fase”, scarsamente formalizzati, composti da membri di diversi partiti ed associazioni, che non sempre interpretano la volontà e gli orientamenti di questi partiti o di queste associazioni, ma proprio per questo interpretano con maggiore intelligenza ed elasticità le esigenze dettate da una determinata congiuntura politica. Gruppi dirigenti che, nell’epoca delle organizzazioni rigide e monocentriche, vengono visti come un segnale di crisi di queste organizzazioni, ma nell’epoca attuale rappresentano il funzionamento normale del nuovo soggetto politico plurale.
A seconda delle particolarità sociali e storiche in cui nasce, il partito connettivo di cui parlato sopra può assumere forme diverse. Faccio solo due esempi: uno è il progetto del PSOL (Partito socialismo e libertà, nato recentemente in Brasile a sinistra del PT), l’altro è il progetto italiano di Sinistra Europea, che sta nascendo per iniziativa del PRC e di altri soggetti sociali e politici.
Il PSOL si presenta come una valorizzazione del partito reale: esso è un partito relativamente piccolo, che però diffonde i propri distaccamenti in tutti gli organismi del partito reale, non per egemonizzarli, ma per contribuire al loro dialogo ed al loro rapporto. La diffusione dei distaccamenti del partito nei vari organismi di movimento, possibile proprio perché il partito riconosce la completa autonomia politica di questi organismi, permette di moltiplicare al massimo l’influenza del partito ben oltre le sue piccole dimensioni.
Sinistra Europea si presenta invece come una specie di interiorizzazione del partito reale: essa infatti intende far vivere all’interno di uno stesso involucro statutario-formale diverse associazioni che mantengono la propria autonomia e la propria ragione sociale. L’adesione al partito non è di tipo individuale: si aderisce a Sinistra Europea aderendo alle associazioni che ne fanno parte. Ovviamente, le norme statutarie di Sinistra Europea sono molto “larghe” ed elastiche, ed ovviamente essa non pensa affatto di ridurre a sé o di “rappresentare” l’insieme del partito reale.
In entrambi i casi resta viva la dialettica tra partito reale e partito formale, ed in entrambi i casi lo sviluppo positivo del progetto dipende dalla capacità di riconoscere nella molteplicità degli attori sociali e politici non un limite (come avveniva per il partito di massa, che tendeva ad assorbire in sé tutti gli attori), ma come una risorsa da potenziare.