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Guerre-Conflitti Michele Giorgio
Due le visioni opposte tra gli indipendentisti, già contrapposte con la tragedia del teatro Dubrovka. Basayev, è per la «guerra santa islamica», Maskhadov sostiene la lotta armata solo contro obiettivi militari. Beslan, con la presenza di «militanti arabi», mette in gioco uno scenario più inquietante
Nel «teatro» di Beslan in scena anche il conflitto tra il duro Basayev e il moderato Mashkadov
di MICHELE GIORGIO
La presa di distanza dal sequestro di centinaia di ostaggi nella scuola di Beslan fatta dal presidente indipendentista ceceno Aslan Maskhadov, ha confermato le ormai ampie differenze esistenti all’interno dello schieramento ribelle che si oppone alla occupazione russa della repubblica caucasica. Se Shamil Basayev, responsabile dell’attacco a Beslan, sostiene una lotta armata senza esclusione di colpi, spietata, fatta di attentati suicidi e sequestri di persona, Maskhadov e i suoi più stretti collaboratori al contrario affermano la necessità dell’avvio di un negoziato con il Cremlino, che veda protagonista le Nazioni Unite. Ipotesi che purtroppo le autorità centrali russe, in particolare il presidente Vladimir Putin, respingono con forza contribuendo alla radicalizzazione del conflitto e alla crescente popolarità degli estremisti di Basayev. Il presidente Maskhadov «non c’entra con l’accaduto, anzi condanna apertamente ogni azione terroristica», ha detto giovedì il ministro degli esteri del governo indipendentista ceceno, Ilias Akhmadov. Un’analoga presa di distanza dai fatti di Beslan a nome di Maskhadov è stata fatta anche da Akhmed Zakaiev, esponente di punta dello schieramento separatista.
Lo stesso atteggiamento venne tenuto in passato anche nel caso dell’assalto al teatro Dubrovka, rivendicato da Basayev, e in cui morirono oltre cento persone, quasi tutte a causa dei gas soporiferi usati dalle forse speciali russe. Maskhadov, eletto democraticamente dal suo popolo nel 1996 e deposto con la forza dai russi, è un musulmano credente ma non osservante che segue la strada tracciata dall’ex presidente Dzhokhar Dudayev che aveva avviato la lotta per la liberazione nazionale dopo secoli di oppressione zarista e le deportazioni di decine di migliaia di ceceni in Asia centrale ordinate da Stalin nel 1944. Due visioni opposte si scontrano nel fronte degli indipendentisti ceceni. Basayev, è apertamente attratto dall’idea del Jihad, la «guerra santa islamica» alla quale fa frequenti riferimenti nei suoi documenti. Più di tutto è convinto che soltanto l’uso della forza imporrà il ritiro ai russi e vendicherà gli orrendi abusi contro la popolazione civile che Mosca ha compiuto e continua a compiere in Cecenia.
Una linea del pugno di ferro che, unita all’idea di un allargamento del conflitto anche alle regioni vicine - Inguscezia, Daghestan, Ossezia -, continua a far proseliti grazie soprattutto all’assurda posizione di Putin, che da anni nega ogni possibilità al negoziato. Maskhadov, che invece sostiene la lotta armata solo contro obiettivi militari e respinge gli attacchi ai civili innocenti, ha compreso che la Russia è un nemico potente che può contare su importanti sostegni internazionali. Il popolo ceceno, a suo avviso, potrà raggiungere i suoi obiettivi solo ad un tavolo delle trattative e con il pieno coinvolgimento dell’Onu dove, peraltro, non sono pochi gli Stati membri a criticare Putin. Il presidente eletto separatista crede nella legalità internazionale e non nel pan-islamismo militante ma ciò non è servito a smuovere l’intrasigenza del presidente russo. Le strategie di Basayev e Maskhadov sono ormai in aperto conflitto.
Lo scorso gennaio Basayev sferrò duro attacco contro l’ala politica della resistenza cecena accusandola di mettere in dubbio l’indipendenza della repubblica e di sabotare la stessa guerra di liberazione. Il capo della guerriglia definì la richiesta di Maskhadov di porre fine alle azioni contro i civili «non recepibile» sino a quando Mosca continuerà a portare avanti «il genocidio del popolo ceceno». Già in passato erano sorte forti divergenze fra i due - il capo guerrigliero venne temporaneamente sospeso dal presidente quale comandante di tutte le forze armate della guerriglia subito dopo il sequestro al teatro Dubrovka - ma erano state ricomposte nella convinzione che nessuno dei due può fare a meno dell’altro. Basayev peraltro ha criticato duramente il ministro degli esteri Akhmadov per il suo piano di pace, approvato invece da Maskhadov, che propone l’indipendenza graduale della repubblica sotto la supervisione internazionale e nel rispetto degli interessi di sicurezza della Russia.
Secondo il leader guerrigliero tale piano «mette in dubbio la stessa indipendenza della Cecenia, fissata nella sua costituzione e che non può essere oggetto di discussione». La frattura dopo il massacro di Beslan potrebbe essere diventata insanabile anche se entrambi i leader forse eviteranno di portarla alle estreme conseguenze. Basayev sa di non poter rinunciare alla copertura politica di Maskhadov, eletto democraticamente (gennaio 1997) e deposto dai russi. Maskhadov, a sua volta stenta ad ufficializzare la rottura. Il presidente ribelle sa che Basayev è molto popolare e che, nonostante le notizie diffuse dai servizi segreti russi sulla presenza tra i 26 sequestratori di «dieci militanti arabi» nel sequestro di Beslan, in realtà ha continuato in questi a svolgere la funzione di filtro impedendo la totale «arabizzazione» della guerriglia e la trasformazione della Cecenia in un nuovo Afghanistan.
La presenza araba nel Caucaso infatti continua ad essere limitata a poche dozzine di mujahedin (nei mesi scorsi è stato ucciso in combattimento il «comandante Abu Al-Walid»). Mosca ha subito lanciato la tesi del pieno coinvolgimento di gruppi islamici della cosiddetta rete di Al-Qaeda nel massacro in Ossezia ma i suoi 007 non hanno fornito le prove di quanto affermano. Il presunto finanziatore dell’operazione a Beslan, Abu Omar As-Seif, descritto come il rappresentante di Al-Qaeda in Cecenia, peraltro era stato dato per morto nel 2001 dagli stessi servizi segreti russi.