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La prossima rivolta sarà molto peggio

Publie le mercoledì 23 novembre 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Discriminazione Sociale Francia

Il giorno dopo a Aulnay e a Clichy-sous-bois, «dove tutto è cominciato»

Viaggio nell’epicentro dei moti che hanno scosso le periferie francesi, tra i fratelli maggiori dei banlieusard. Tutti in cerca di lavoro ma stufi dei flic violenti, solidali con i più piccoli ma contrari ai loro metodi. «Hai visto i casini di questi giorni? È niente rispetto a quello che succederà quando scenderanno tutti in strada»

di ALESSANDRO MANTOVANI INVIATO A PARIGI

Basta guardarlo negli occhi, Khaled, per sapere che non esagera: «Hai visto i casini di questi giorni? Beh questo è niente rispetto a quello che succederà, può bastare la prima bavure, il primo abuso della polizia. Perché stavolta les emeutes, i moti, si sono diffusi in tutte le banlieues di Francia, non hanno riguardato una o due città come succede da vent’anni, e questa è una novità.

Ma per la strada c’erano solo i ragazzini. Quelli della mia età e i più grandi hanno soltanto lasciato fare. La prossima volta invece saranno tutti in strada, e faranno di peggio». Bisogna ascoltarlo perché Khaled, disoccupato 25enne d’origine algerina, è un bravo ragazzo, cerca solo un lavoro stabile. Non ha tirato «neanche un sasso - assicura -. Non condivido quel metodo ma sono solidale e ho pensato mille volte che la polizia meritasse questo e altro».

Anche lui non sopporta più i controlli continui sulla base del colore della pelle, gli insulti e le violenze dei flic ai quali il ministro dell’interno Nicolas Sarkozy ha appena promesso un premio speciale per il lavoro fatto: quasi 3000 tra fermi e arresti, un centinaio di feriti tra gli uomini in divisa in venti giorni di rivolta. «A questo punto - osserva il giovane con sincera amarezza - se sento che un poliziotto è stato ucciso mi viene da festeggiare».

Comunque si è dato da fare perché i due fratelli più piccoli, Nasir e Ahmet di 22 e 20 anni, «non facessero cazzate». Sono anche loro disoccupati: «Che dovremmo fare? Scrivere nel curriculum che ci chiamiamo Pierre e non Mourad? Dare un altro indirizzo?». Incensurati tutti e tre, ma ad Ahmet sarebbe bastata una segnalazione di polizia, poi archiviata dai giudici, per avere gravi problemi sul lavoro. Attorno ai fratelli più piccoli i loro amici non parlano se non per dire, almeno con gli occhi, quanto si sono divertiti.

Un postaccio ribollente

Vivono a Aulnay-sous-Bois, 60 mila abitanti, una delle maggiori città della banlieue a nord-est di Parigi nel ribollente dipartimento della Seine Saint Denis, il «93». È un postaccio, roba da apartheid sociale: a nord le cités, agglomerati informi di torri e di «barre», ovvero palazzoni disposti in orizzontale, come les trois mille dove vivono i tre ragazzi, in un reticolo di strade e stradine sempre uguali per le quali puoi camminare all’infinito senza trovare un cinema o un bar aperto dopo le 20; a sud villette unifamiliari abitate per lo più da franco-francesi che eleggono il sindaco di destra.

Khaled non è, ovviamente, né un salafita né uno spacciatore, non è neanche di quelli che ciondolano per strada, non ha grilli politici per la testa perché «la politica non si rivolge a noi, se ne fotte di noi. Dove stanno partiti e sindacati?». Tanto meno è un violento, «anche se qui - spiega - la violenza la impari da piccolo, io francamente fino a 18-19 anni pensavo che fosse normale saltare addosso a uno in quattro o cinque». Lui vuole solo un lavoro, un lavoro vero. «Sono diplomato, ma farei volentieri lo spazzino - dice - o l’operaio in catena da montaggio. Invece da cinque anni solo lavoro interinale: ho fatto il magazziniere e i turni erano studiati in modo tale che fosse impossibile resistere più di un mese».

È un tipo ben diverso da Moussa, 20enne di origini mauritane fresco di diploma e testa calda di un’altra banlieue tra le più arrabbiate della Seine Saint Denis, le Blanc Mesnil, incontrato fuori dal tribunale di Bobigny dove era venuto a sostenere uno dei suoi compagni, Mamadou, condannato a un mese di carcere senza condizionale benché incensurato: «Non è che le macchine le bruciavamo tanto per fare, così perché fa freddo...

Accendevamo il fuoco e ci nascondevamo lì dietro - e indica un edificio a cinquanta metri - Quando la polizia arrivava la prendevamo a sassate». E non solo, anche bottiglie molotov. Altri però la fanno più semplice: «Bruciare le auto è divertente, è normale che uno si sfoghi. Non ne possiamo più della polizia e di questa vita di merda e di essere costretti a stare a casa dei genitori fino a trent’anni».

Le rivalità sono scomparse

A Aulnay, tra gli amici di Khaled, c’è chi a 40 anni vive ancora con papà e mamma, quando in media i francesi se ne vanno da casa molto prima di noi italiani. Tutti però insistono: «Non scrivete che l’abbiamo fatto per fare a gara tra le diverse cités - ribadisce - non siamo mica idioti, anzi le rivalità tra le cités in questi giorni sono scomparse». Di solito sono violente, anche molto violente, quelle rivalità. Ora invece anche chi non c’era rivendica il rogo o il tentato rogo di concessionarie Renault e di uffici dei servizi sociali comunali ma nessuno si fa carico delle scuole o delle violenze sulle persone, categoria dalla quale i poliziotti vengono esclusi, se non per dire, allargando le braccia, che «c’è sempre qualcuno che va al di là». Anche sull’incendio della palestra di Aulnay Khaled dice: «Non credo che sia stata gente di qui».

Moussa di sicuro non lavora, forse un lavoro lo cerca e forse no, i pomeriggi li passa in strada ma al mattino frequenta un corso di formazione. «Le macchine dei vicini? Ma che sei matto? Mica bruciavamo quelle nostre, qui ci conosciamo tutti, ti pare che mi faccio vedere dal vicino? Le macchine andavamo a cercarle altrove, chiunque sa collegare i fili», dice. In quasi tutte le cités c’è un discreto traffico di pezzi di ricambio: «Anche da Aulnay sud vengono a comprarli qui, sono meno cari di quelli nuovi, ma poi vanno a votare Front National», protesta Khaled. Moussa ce l’ha con i giornalisti: «Qualche tuo collega - ammonisce un po’ serio e un po’ no - in questi giorni è venuto a offrirci dei soldi per prenderne una e bruciarla davanti alla sua telecamera di merda. Lo fanno per poi dire alla télé che siamo animali». È facile replicare che tanti altri giornalisti, compreso chi scrive, i soldi se li sono sentiti chiedere: chi ne voleva duecento, chi cinquecento e chi «mille euro per un camion».

Chiede duecento euro per fare un falò, lì su due piedi, anche Rachid. Ha 16 anni, vive a Aulnay ma sta uscendo dal liceo di Saint Denis, capoluogo del dipartimento «93» e città assai diversa da Aulnay o del Blanc Mesnil. La basilica di Saint Denis è del XII secolo, lì sono sepolti i primi re di Francia. È raggiungibile in metropolitana da Parigi, c’è l’università Paris 8 e una composizione etnico-sociale molto mista, i franco-francesi al centro (e i figli li mandano a scuola a Parigi) e tutt’attorno le cités, la più difficile è forse quella del Framoisin. Le amministrazioni sono all’avanguardia, comunisti «rifondatori», verdi...

Eppure le fiamme si sono levate anche qui e in pieno centro, avenue Jean Jaurès, tra la sede de l’Humanité e la casa di Alain Krivine. «È successo quello che è successo perché non ne possiamo più di essere trattati come "faccia da arabo"», insiste Rachid. Il discorso è sempre quello. A questi liceali Parigi sembra lontanissima. Nadia, 15enne figlia di marocchini, lo spiega meglio dei maschietti che rumoreggiano attorno a lei: «A Parigi ci guardano di traverso per il modo di parlare, per il modo di vestire... E poi non abbiamo un soldo». Quei pochi che hanno li spendono in scarpe e vestiti di marca.

Nadia e le sue compagne si dicono «solidali» con la rivolta «ma non sulla violenza» e sono molto preoccupate della cattiva immagine delle loro cités. Questi ragazzi trovano il college, le scuole medie, molto vicino a casa «e lì quindi non conoscono nessuno che non sia della cités o di quelle vicine, ma anche quando si spostano al liceo si portano dietro la cité», riflette un’insegnante che ha assistito a scuola a risse, pestaggi e perfino all’uso di spray lacrimogeno nel cortile. «L’identità della cité, ma anche quella etnica e religiosa, suppliscono alla fragilità degli individui e delle famiglie», dice ancora la prof, una di quelle che ci credono, mentre gran parte dei suoi colleghi scappano appena possono dai licei di banlieue.

È tempo di muoversi

C’è però chi decide, da un giorno all’altro, di lasciare il suo liceo nella banlieue e di andarsene a scuola a Parigi, 15° arrondissement. Vuol dire un’ora e mezza di treno e autobus al giorno. «Bisogna muoversi, non vale la pena di stare qui tutto il tempo», spiega Hishem, 17 anni, anche lui figlio di algerini. È musulmano ma non prega, gli piace girare con la sciarpa dell’Olympique Marseille che è la squadra di migliaia di banlieusard anche lontano dalla grande città portuale. A Parigi Hishem è arrivato con la politica, sei mesi fa era uno dei portavoce del movimento dei liceali che marciava nei grandi boulevard della capitale, ma nessuna organizzazione è riuscita ad accaparrarselo.

Durante uno di quei cortei è capitato anche che gli studenti parigini si facessero rubare di tutto dai banlieusard - portafogli, telefonini, giubbotti, orologi - ma la polizia se n’è accorta e ha recuperato parte della refurtiva nelle stazioni del metrò. Ora però, per Hishem, è tempo di fare politica a casa, a Clichy-sous-bois, «la ville du drame, dove tutto è cominciato», come dicono tutti.

Lì sono morti Bouna e Zayed, 15 e 17 anni, fulminati in una centralina elettrica mentre cercavano di sfuggire a un controllo di polizia: nonostante la testimonianza di Muttin, il 14enne turco che era con loro e si è salvato per miracolo, le indagini per omissione di soccorso sui poliziotti vanno assai più lente dei processi per direttissima che hanno già portato alla condanna di circa 500 banlieusard, in genere a pene di pochi mesi ma senza condizionale, a volte di più come ad Arras, quattro anni.

Hishem si è impegnato a fondo nell’associazione appena nata Adm, Au de là des mots, al di là delle parole o meglio delle chiacchiere. Il comune, socialista, ha promesso una sede. Chissà come andrà a finire, prima però non c’era nessuna forma di autorganizzazione politica, solo qualche associazione culturale.

Più Nordafrica che Europa

Clichy è un’incredibile agglomerato di 20 mila anima ma senza un centro, se non una rotonda con un McDonald che non è stato bruciato, più una strada con qualche negozio dopo trecento metri di vuoto. E sempre stato un posto più tranquillo di altri, a parte la cité del Bosquet dove lo stesso Hishem non si fida ad avventurarsi con un giornalista straniero. Eppure tra i centri più poveri della Francia, il 50 per cento della popolazione ha meno di 25 anni e nascono 2,1 bambini per ogni donna in età fertile, un dato che fa pensare al Nordafrica più che all’Europa.

Non è distante da Aulnay e insiste sulla stessa zona di foresta ormai disboscata: «Qui non erano solo i più giovani , almeno dopo il lacrimogeno nella moschea - dicono Hishem e altri - perché quella è stata un’offesa, credo l’abbiano fatto apposta, se così non fosse avrebbero dovuto spiegarsi e chiedere scusa, Era domenica, 29 ottobre. Il lacrimogeno, secondo fonti ufficiali confermate dalle immagini scattate da un fotografo indipendente e pubblicate da Le Monde, non è finito nella moschea ma appena fuori, sulla porta, quindi il fumo ha invaso la sala di preghiera alla fine del digiuno di una giornata di ramadan. «Qui invece, come vedi, nessuno ha toccato la chiesa», indica Khaled in una piazza di Aulnay dove la cabina telefonica non c’è più, un locale del comune è stato devastato e l’asfalto porta i segni di diversi roghi di auto. Né la chiesa né i negozi sono stati danneggiati.

A Aulnay, prima della guerra d’Algeria, arrivò il nonno di Khaled. Vivono in cinque in un F3, tre stanze, in una torre più decente di molte altre dove c’è puzza di urina, intonaci che ti cadono in testa: «Qui rifanno solo le facciate e le siepi». Il nonno il 17 ottobre del ’61 era fra i tanti che rischiarono di finire annegati nella Senna, sotto il Pont Neuf, dalla polizia di Maurice Papon: «Ti domandavano "sai nuotare?" - racconta - Se dicevi di no ti buttavano giù, se dicevi di sì ti portavano via. Io ho detto "no" e mi sono salvato". Ha vissuto alla bidonville di Nanterre, periferia ovest della capitale, fino al `79 e «pensava di essere arrivato in paradiso» quando è sbarcato ai trois-mille di Aulnay, che oggi è l’incubo dal quale i nipoti vorrebbero uscire. Suo figlio, il padre di Said, manco a dirlo era muratore, come migliaia di algerini di cui la Francia ebbe un gran bisogno dal primo dopoguerra fino alla costruzione, negli anni 70, delle cités. Poi se n’è andato, mollando moglie e figli.

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Messaggi

  • Numero 85, 20 novembre 2005 "Quinterna"

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    L’ODIO SI DIFFONDE A MACCHIA D’OLIO ED E’ ODIO DI CLASSE

    La rivolta iniziata nelle periferie di Parigi si è estesa a macchia d’olio nei maggiori centri francesi fino a interessare più di 300 città. In Belgio, in Olanda e in Grecia vi sono stati episodi analoghi. Fin dall’inizio sono nate discussioni sulla natura di questa ondata di violenza: è solo dovuta a un sottoproletariato qualunquista e strafottente? O ha genuine radici di classe ed è quindi suscettibile di diventare qualcosa che va oltre ai roghi di automobili ed edifici? Perché il casseur non rivendica nulla e irride all’agognata "integrazione"? Perché, come si fa di solito, non presenta suoi interlocutori per una trattativa col nemico? Molti dei protagonisti sono figli di seconda e persino terza generazione di coloro che fecero il boom economico. Ora che il lavoro non c’è più, essi alimentano la sovrappopolazione relativa della quale il Capitale oggi non sa che farsene. Non c’entrano le spiegazioni "etniche": l’agglomerato urbano di Parigi ha 10 milioni di abitanti e solo 2 milioni abitano nella municipalità centrale. Non ci sono 8 milioni di "islamici" nelle banlieues parigine. Qui la disoccupazione è del 20,7%, e tocca il 40% nelle aree da cui è partita la rivolta (Zone Urbne Sensibili, le chiama lo Stato). Storcano pure il naso i benpensanti di destra e sinistra, ma questo è il "nuovo" proletariato senza riserve, precario, sottopagato, schiavizzato, che sa di non poter "rivendicare" un lavoro che non c’è. Le rivendicazioni le aveva già presentate quello "vecchio", una o due generazioni fa; le trattative erano già state intavolate; adesso quello nuovo ne vive le conseguenze nei ghetti che furono l’orgoglio del capitalismo costruttivo e integratore, nei quali è trattato come una bestia. Volete pure che gentilmente ringrazi?

    PERCHE’ DISTRUGGONO LE AUTOMOBILI?

    Il principale bersaglio dell’ondata di violenza in Francia è costituito dalle automobili: 8.500 sono state incendiate in tre settimane di rivolta, ma negli ultimi mesi ne erano state distrutte 21.900, sistematicamente e senza baccano mediatico. Un furore che non è stato per niente "cieco", dato che si è manifestato contro uno dei simboli del consumo di massa dal quale gli abitanti delle periferie sono sistematicamente tagliati fuori: merce per eccellenza, locomotiva del PIL, prodotto dell’operaio tradizionale con posto fisso, nonché serial killer meccanico, quarta causa di morte dopo le cardiopatie, il cancro e la malasanità. La sociologia c’entra ben poco: quando i sanculotti, diseredati e disprezzati, assaltarono, aprirono, incendiarono e poi demolirono con rabbia la Bastiglia, non pensarono neppure per un attimo alla rivoluzione borghese di cui erano parte, lo fecero e basta. Quando le petroleuses della Comune del 1871, poi fucilate a decine dalla sbirraglia versagliese, incendiarono i palazzi del potere borghese, non pensarono affatto alla "società futura", lo fecero e basta. Come recitano i Fonky, rappers parigini: "Ci state strizzando/ Bene, adesso lo sapete/ Ci dovremo difendere/ E non cercate poi di capire".