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"La déco engagée" di Charlotte Perriand
Publie le giovedì 30 marzo 2006 par Open-Publishing1 commento
Dazibao Arte e Cultura Francia Chiara Ristori
di Chiara Ristori
Il suo nome è poco conosciuto dal grande pubblico, ma il suo lavoro è fra i più noti. Architetto d’interni e designer d’avanguardia, Charlotte Perriand - scomparsa nel 1999 all’età di 98 anni- ha creato alcuni mobili rivoluzionari (e mitici) fra i più amati e riprodotti del secolo scorso, in particolare quelli che ha co-firmato con Le Courbusier e Pierre Jeanneret, all’epoca della loro collaborazione decennale.
Dalle prime avanguardistiche realizzazioni in metallo e cuoio del 1928 (la poltroncina a schienale ribaltabile, la poltrona Gran Confort, la celeberrima Chaise Longue) i suoi sono classici consacrati da un successo ininterotto- editori dapprima Thonet, e a partire dal 1965 Cassina. Ma limitare una vita di creazione ed di impegno esemplari a queste meraviglie del design, diventati status-symbol -e simboli del secolo scorso- è senz’altro riduttivo.
Charlotte Perriand non ha disegnato solo sedie e sgabelli, e poltrone per banchieri snob. La preoccupazione di creare « per tutti » è stata una priorità per Perriand e soci, la loro ambizione quella di farsi produrre in serie. Grazie ai nuovi materiali ( Il metallo è una rivoluzione ! ), come i tubi di acciaio, da far uscire dal ghetto del mobilio da bistrò e da ospedale (anche per non farne più, di questo acciaio, armi e cannoni).
Illusione ? « Avevo pensato che Peugeot, dal momento che faceva biciclette per tutti, potesse fare poltrone per tutti », raccontava Perriand nel ‘75. « Dio sa se poi le nostre poltrone sono state poltrone per tutti... Perché all’inizio erano solo pochi raffinati intellettuali a potersele permettere, e in fondo ancora oggi soltanto i privilegiati possono comperarle ».
Un’occasione allora per riflettere al senso globale del lavoro della creatrice, e per conoscere meglio il percorso della donna, ci è offerta grazie alla prima bellissima retrospettiva consacratale dal Centro George Pompidou di Parigi. Ambigua eredità infatti quella di Charlotte Perriand, il cui lascito è come in bilico fra prestigiosi oggetti di lusso, e l’IKEA-pensiero.
Se non tutti possiamo infatti sdraiarci con le gambe per aria e riposarci sull’inossidabile Chaise longue basculante B 306, come la sublime Charlotte nella famosa foto del 1928, senz’altro possiamo riconoscere negli ambienti in cui abitiamo e lavoriamo -ma che magari detestiamo- alcune delle idee più innovative e generose della ricerca di questa pioniera del modernismo.
E chiederci quanto alcune di queste proposte siano state snaturate. Recuperate da gente il cui scopo non ci sembra più essere quello nobile della nostra, la felicità per tutti, ma semplicemente rendere abitabili e redditizie superfici troppo esigue, indegne di esseri umani. Ma non era stata proprio Charlotte Perriand a riflettere sull’habitat minimum e a realizzare una « cellula » di 14m ?
Le lodevoli intenzioni di Perriand sono senza dubbio state tradite . Ma il suo lavoro è da far riscorpire, e da ripensare. La mostra di Parigi intende per l’appunto riproporre aspetti della ricerca di Charlotte Perriand meno noti. L’intento è « riconsiderare la sua opera e analizzarla per metterne in valore l’architetto degli spazi collettivi più che il designer ». Far scoprire al grande pubblico l’impegno di una donna engagée, vicina al Partito Comunista e membro dell’Associazione degli Scrittori e Artisti Rivoluzionari, legata ai movimenti d’avanguardia degli anni ’30, a Fernand Léger e a Jean Prouvè.
Attraverso più più di sessanta pezzi originali presentati in nove sale, disegni, lettere e foto, si impone al visitatore l’evidenza del progetto di una vita: quello di costruire ed attrezzare spazi « pour le bonheur de tous ». Perché la felicità sia accessibile e praticabile per tutti. Fondamentali allora le riflessioni sul diritto ad abitazioni nelle quali siano garantite certo l’igiene e la funzionalità, ma soprattutto preservati il decoro, l’intimità, la possibilità di riposo e di pensiero(!), indispensabili alla dignità. Un’idea del bello e dell’utile per «il popolo», al servizio del quale Charlotte dichiara di voler lavorare, e al quale- come ribadito in lettere veementi al compagno Jeannneret- desidera far amare il proprio lavoro.
Fin dagli gli anni trenta Charlotte Perriand ha realizzato interni di case popolari, di alloggi studenteschi, di spazi per le collettività: le sue soluzioni sono sempre pragmatiche e eleganti, gli ambienti sobri vibrano nell’energia dei colori: rosso, giallo, blu.(« Oggi si fa tutto in nero, il nero è di un triste ! », deplorava negli anni settanta...) Persino nell’ asilio-nido del Rifugio per i senzatetto dell’Esercito della Salute di Parigi, il suo tocco è inimitabile.
La sua Maison du Jeune Homme, monolocale in cui gli spazi per lo studio, lo sport ed il bar (!) coesistono, una meraviglia di equilibri. E di tutti questi progetti firmati Le Coubusier-Pierre Jeanneret, siamo sicuri che Perriand si sia occupata solo degli arredi? Pezzo forte della mostra anche il monumentale fotomontaggio del 1936 La Misère de Paris, riprodotto e qui esposto per la prima volta. Un lavoro che denuncia i disagi consecutivi all’espansione urbanistica della capitale, particolarmente interessante perché ricontestualizza il pensiero e la pratica architettonica di Perriand nella Francia del Fronte Popolare, di cui è fervente sostenitrice, e illustra le conquiste della sinistra finalmente al governo : la settimana di quaranta ore lavorative, le prime vacanze retribuite, le pensioni e la previdenza sociale.
E ancora, l’entusiasta e inesausto sforzo di una vita per la democratizzazione degli svaghi- les loisirs- nel tempo libero. Vedi i deliziosi progetti- mai realizzati- per le case per il fine settimana effimere, « interamente in legno francese », smontabili e trasportabili, alla portata, diceva lei, di chiunque avesse qualche asse, chiodi e un martello a disposizione. Sono bellissime : per il lungo-fiume, per la foresta; il divertente rifugio-bivacco prefabbricato in metallo, a forma di botte (quello fu veramente costruito, nel ’38, e Charlotte felice posa sorridente sulla foto, gambe nude e scarponi a penzoloni) ; fino alle attrezzature per il turismo di massa -era appassionata di montagna- della famosa stazione sciistica Les Arcs in Savoia, terminata nel 1969. Il tutto nell’assoluto rispetto dell’ambiente circostante, di cui l’uomo, ci ricorda Charlotte, fa parte.
La mostra illustra dunque le tappe di questa « vita di creazione » (come afferma il titolo della sua autobiografia) lungo un percorso che segue la biografia. I saloni. I numerosi viaggi : l’Urss, dove partecipa a cantieri e costruzioni. Poi il Giappone, dopo la rottura con l’atelier Corbusier nel 1937. Lì la sorprende la guerra, e ci resta dunque dal ’40 al ’46, dando conferenze e organizzando mostre. Riscoprendo la bellezza dei materiali naturali, che non abbandonerà più, iniziandosi all’estetica e alla filosofia zen, infaticabile (anche se mezza morta di freddo , l’inverno). E ancora il Brasile negli anni Sessanta, dove realizza per un appartamento di funzione forse i suoi mobili più sorprendenti, in legno locale, monumentali. Bellissimi. E ovunque vada, Perriand visita le fabbriche, va a parlare con gli artigiani, gli operai, si fa spiegare le tecniche di fabbricazione. È questa sua inestinguibile attenzione per i « segreti di cucina » che ci piace, e che la ce la restituisce, autentica.
Non solo poltrone, dunque. Un bell’omaggio al percorso professionale di una donna ai cui esordi Le Courbusier avrebbe detto la celeberrima frase : « Signorina, qui non si ricamano cuscini ». Ma a proposito di cuscini pochi sanno che fu lei a scegliere le pelli, le imbottiture, a trovare le molle e a far fabbricare i prototipi (andati persi) dei famosi mobili metallici degli anni Venti, per « fare una sorpresa a Corbu e Pierre ». E che candidamente rimpiangeva le edizioni in gommapiuma di Cassina, perché trovava che la piuma d’oca avesse il vantaggio di « conservare nei cuscini l’impronta del corpo ». « Ma poltrone così », le fu spiegato dal fabbricante « i clienti ce le rimanderebbero indietro ».
Charlotte Perriand, Centre George Pompidou, place Beaubourg, Parigi. Fino al 17 aprile Charlotte Perriand, Une vie de création, éd. Odile Jacob, 1998.
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1. > "La déco engagée" di Charlotte Perriand, 31 marzo 2006, 12:20
Non condivido minimamente questo panegirico di Charlotte Perriand : la sua opera rimane ristretta nell’ambito dell’ideologia funzionalista e razionalista, di matrice illuministica, che tanti guasti ha prodotto sia livello urbanistico che architettonico e che ha completamente asservito l’industrial design alle logiche consumistiche.
Occorre ricordare che il funzionalismo trovò la sua prima espressione artistica cosciente nella “Carta d’Atene” pubblicata dal CIAM nel 1933.
In detta carta si individuavano quattro funzioni che avrebbero dovuto determinare la configurazione della città da parte degli architetti : abitare,lavorare , ricrearsi (nel tempo libero) e circolare.
Tali funzioni avrebbero dovuto trovare espressione “in maniera autonoma”, come “entità reali” in ambiti territoriali separati, determinando una vera e propria “segregazione delle funzioni urbane”, che il funzionalismo avrebbe voluto esprimere visualmente attraverso l’architettura.
La responsabilità del caos urbano ed architettonico veniva apoditticamente attribuita all’avvento dell’ “era delle macchine”, vista quasi come una catastrofe naturale che si abbatteva , improvvisamente ed imprevedibilmente su una società fino a quel momento pacifica e felice.
Tale posizione culturale, ignorando la continuità dello sviluppo storico, interpretava i rapporti sociali in modo naturalistico, anziché storicamente.
Non veniva cioè condotta un’approfondita analisi storico-politica degli aspetti socio-economici che avevano generato tale fenomeno, assumendolo come dato di fatto astorico e cercando di porre rimedio agli inconvenienti da esso provocato con il ricorso a soluzioni estetiche aventi il fine sociale di costruire una città capace di soddisfare non solo le esigenze fisiologiche, ma anche e soprattutto psicologiche.
Venivano a tal uopo enunciati alcuni obiettivi sociali : subordinazione dell’interesse privato all’interesse della comunità e la necessità da parte della città di assicurare , sul piano spirituale e materiale, la libertà del singolo ed i benefici dell’azione collettiva.
Il funzionalismo moderno considera l’architettura ed il design come indipendenti da ogni legame storico, presentandosi come uno stile “astorico” ed affermando l’esigenza di un’estetica “atemporale” o “metastorica”. Questo rifiuto della storia fa si che questo tipo di funzionalismo assuma l’assetto sociale esistente come dato di fatto, immutabile ed indiscutibile. Così facendo diventa gregario delle forze sociali determinanti e dominanti in quel momento storico, perdendo di fatto quel carattere espressivo “atemporale” che pretenderebbe di avere e sottomettendosi alle attuali esigenze funzionali della società, acriticamente accettate.
Tale supina accettazione ha fatto sì che il funzionalismo venisse applicato soltanto per fini utilitaristici, trascurando la ricerca di una funzionalità estesa anche al soddisfacimento dei bisogni psicologici dell’uomo.
La metodologia progettuale del funzionalismo prescindeva totalmente da qualsiasi analisi dello sviluppo sociale e psicologico dell’uomo nelle società altamente industrializzate ed urbanizzate, limitandosi ad ottimizzare dal punto di vista tecnico e tecnologico gli involucri edilizi ed oggetti d’uso rispetto a funzioni analizzate e definite una volte per tutte in maniera schematica e soprattutto accettate come invarianti rispetto ad un assetto sociale acriticamente accettato e non suscettibile di essere messo in discussione.
Nella città moderna, come si è venuta strutturando per effetto delle rivoluzioni borghesi che hanno prodotto il superamento della servitù della gleba e dei rapporti di dipendenza personali tipici del feudalesimo, la sfera pubblica , intesa come ambito in cui gli individui esercitano un influsso sulle “istituzioni della collettività”, si è affermata come elemento imprescindibile e caratterizzante delle democrazie borghesi e che le stesse pongono a fondamento del superamento dei vecchi rapporti sociali.
Dal grado di integrità della sfera pubblica, a cui va attribuita un’importanza decisiva come pietra di paragone della democrazia, è possibile valutare quanto sia ampio il margine personale di libertà e di decisione dell’individuo entro la società in cui vive.
Nella sfera pubblica si misura il grado di interesse e di partecipazione dei cittadini agli eventi politici, cioè pubblici : la sfera pubblica non può però esprimersi nell’urbanistica se non è presente nelle istituzioni della società e nella coscienza dei cittadini.
La configurazione e la struttura dei moderni Piani Regolatori riflette questa crititicità nel rapporto tra sfera pubblica e sfera privata.
In genere in questi P.R.G. gli spazi pubblici o destinati ad attività collettive sono spesso trattati come aree di resulta , cioè come spazio libero non strutturato interposto tra gli edifici di maggior importanza oppure come spazio destinato a funzioni meramente tecniche di trasporto : strade, parcheggi pubblici, rotatorie etc..
Tali spazi molto spesso non possegono caratteristiche di rappresentanza o comunque tali da permettere funzioni sociali, esprimendo una perdita del senso collettivo.
Attualmente la proprietà del suolo detenuta quasi esclusivamente dai privati limita drasticamente le capacità pianificatorie delle pubbliche amministrazioni, che sono così costrette ad accettare compromessi con gli interessi dei privati.
Sono sempre più i privati interessi, spesso organizzati in clan affaristici, a imporre le proprie scelte alla comunità ed ad orientare gli indirizzi della pianificazione urbanistica.
La carenza di risorse finanziarie pubbliche costringe le amministrazioni a subire la pressione degli interessi del potere economico a danno degli interessi generali della collettività .
I monopoli economici condizionano le scelte localizzative sia degli interventi privati, ma anche di quelli pubblici : le pubbliche amministrazioni si trovano spesso nella necessità di andare a infrastrutturare aree al di fuori di ogni logica di programmazione, privilegiando interventi che derivano da scelte localizzative private.
Tutto questo determina forti squilibri di carattere territoriale , compromettendo le funzioni del centro cittadino e provocando fenomeni secondari negativi nel settore degli alloggi, come quello della nascita di numerosi quartieri nuovi caratterizzati da notevole omogeneità architettonica e spesso anche sociale.
Lo smembramento funzionale del territorio urbano in singoli distretti socialmente omogenei determina un degrado culturale della popolazione ivi residente.
Gli individui che abitano questi quartieri residenziali-dormitorio tendono a limitare i rapporti sociali alla cerchia familiare, si isolano dalla vita pubblica e , riducendo tutte le attività al minimo denominatore intellettuale, pervengono ad una perdita di differenziazione umana.
I rapporti tendono a restringersi e limitarsi all’interno di ciascuna area urbana socialmente omogenea, dando luogo ad ambienti sociali uniformi senza relazioni tra di loro.
Si assiste anche ad un’attenuazione del contrasto tra ambito pubblico e privato, in quanto ognuno tende ad autorisolversi al proprio interno con scarse interrelazioni reciproche.
L’omogeneità sociale all’interno dei singoli quartieri produce un effetto “ghetto”, con un estraniamento rispetto ai “gruppi” all’esterno.
L’urbanistica , con l’affermarsi del concetto di zonizzazione funzionale, prende atto di queste forme di regressione del comportamento sociale verso forme che prescindono dall’esigenza di formazione di un ambiente pubblico, rinunciando a farsi strumento del soddisfacimento dei reali bisogni , anche psicologici, dell’uomo.
Il funzionalismo ha come obiettivo la razionalizzazione della macchina urbana, subordinando però le esigenze sociali ed umane al principio del profitto ed accettando acriticamente l’irrazionalità di tale principio rispetto a finalità di sviluppo sociale della collettività.
L’influenza dei fattori ambientali, in generale, e della conformazione urbana in particolare non è comunque molto rilevante : determinati comportamenti sociali devianti non sono quasi mai legati ad una particolare conformazione edilizia di un quartiere, ma derivano quasi sempre da condizioni socio-economiche di basso livello ed omogenee all’interno del quel determinato gruppo sociale.
Analizzare la percezione che l’uomo moderno ha del proprio ambiente, è indispensabile per comprendere ed individuare i fattori intermedi che costituiscono il nesso tra carattere individuale ed ambiente sociale.
Negli strati sociali superiori la percezione emotiva dell’ambiente è diversa da quella degli strati inferiori : i soggetti di status sociale elevato ( Jet-Set ), con elevata mobilità goegrafica e scarso rapporto emotivo con l’ambiente fisico, tendono a perdere la capacità dell’apparato percettivo a cogliere ed identificare aspetti morfologicamente complessi e differenziati.
Questi soggetti, a differenza di chi riesce a stabilire un forte rapporto emotivo con l’ambiente, tipico degli strati sociali inferiori, che hanno scarsa mobilità geografica, tendono a preferire un ambiente strutturato in forme semplici e dotate di scarsi significati accessori simbolici.
L’estetica del funzionalismo, caratterizzata da forme semplici e da povertà di contenuto espressivo, non è solo finalizzata a consentire una produzione industrializzata e standardizzata, ma rispecchia anche l’undimensionalità dello sviluppo sociale.
Il funzionalismo , con la sua povertà espressiva, è un ‘estetica ad una dimensione e riflette l’unidimensionalità e l’irrazionalità di tutto lo sviluppo sociale.
Tale unidimensionalità si estrinseca nell’attribuire piena autonomia ad i mezzi tecnici rispetto agli obiettivi sociali : si sostiene l’uso di strumenti razionali per obiettivi irrazionali.
L’aumento della ricchezza e del tenore di vita torna a vantaggio degli individui solo in un ristretto senso fisiologico, ma le possibilità di sviluppo psicologico vengono sistematicamente represse.
L’energia libidica risulta menomata e deformata nella sua capacità di espansione emotiva.
Gli impulsi istintuali primari vengono deformati prima che questi raggiungano la coscienza e la formulazione linguistica.
Di queste deformazioni l’individuo non ha coscienza, ma le stesse si spingono in forma silente fino all’apparato percettivo, operando subdolamente sulla capacità di adattamento anche ai più desolati paesaggi funzionalizzati, favorendone la passiva accettazione.
L’individuo diventa sostanzialmente indifferente rispetto alla configurazione estetica dell’ambiente e non è più capace di vivere un’esperienza psichica immediata e gratificante di ambienti caratterizzati da morfologie più differenziate ed esteticamente rilevanti.
Tale indifferenza rispetto all’ambiente ha il suo corrispettivo anche nel rapporto con gli oggetti di uso comune : abiti, arredi, automobili etc., con i quali si instaura un rapporto puramente feticistico, condizionato dalla moda e dalla pubblicità e legato esclusivamente alla loro valenza simbolica.
Anche l’interesse per l’estetica storica, quando non addirittura superficialmente rivolto ad aspetti banali e improntato a logiche tipiche del consumismo culturale, ha assai spesso un carattere feticistico oggettivato, che guarda più al valore assunto dall’oggetto sul mercato artistico che non alla sua bellezza intrinseca.
La scomparsa dell’ornamento nell’architettura va di pari passo con la repressione degli impulsi libidici parziali, che riescono a trovare sfogo e sublimazione solo nella sfera sessuale , e ciò rappresenta una delle più gravi menomazioni delle possibilità di sviluppo psicologico dell’individuo.
L’architettura ed il design dovrebbero elaborare un nuovo linguaggio formale, che non derivi dal riuso manieristico di vecchi stilemi, ma che scaturisca da un uso innovativo ed insolito dei moderni materiali.
Un esempio potrebbe venire dal dadaismo e dalla pop-art che creano opere montando oggetti di uso quotidiano, sottratti alla loro abituale destinazione utilitaria e collocati in un contesto diverso ed assolutamente insolito.
Tale opera di decontestualizzazione può suscitare un’azione liberatrice e portare a livello di coscienza il bisogno di nuove forme di convivenza sociale.
Il linguaggio dell’architettura dovrebbe essere portatore di messaggi positivi, dotati di ricchezza formale sul piano estetico ed altamente differenziati sul piano psichico.
Il dibattito sull’arte e sull’umanizzazione e rianimazione dell’architettura moderna e dell’industrial desig non deve però rimanere confinato nel ristretto ambito disciplinare della storia dell’arte, ma deve essere oggetto di attenzione sociale e finalizzato a migliorare lo sviluppo psichico ed emotivo dell’individuo.
Da una presa di coscienza della necessità di una migliore e più gratificante definizione morfologica del proprio ambiente di vita , può scaturire anche il bisogno di superamento degli attuali sistemi sociali “unidimensionali”, che reprimono lo sviluppo psicologico degli individui e, trasformandoli in meri soggetti consumatori, li rendono disponibili ad accettare docilmente e passivamente le più aberranti ed irrazionali logiche di mercato.
L’individuo non percepisce coscientemente l’irrazionalità del proprio atteggiamento e del comportamento sociale dei propri simili e non riesce più a gestire razionalmente il proprio sviluppo psicologico ed a sottrarsi ai condizionamenti dell’apparato pubblicitario ed all’imbonimento televisivo.
Per quanto riguarda Le Corbusier, che viene ritenuto il massimo interprete del funzionalismo, occorre ricordare che il medesimo non ebbe scrupolo, tramite il Sindacato Fascista degli Architetti, ad autoproporsi a Mussolini quale candidato alla progettazione di Addis Abeba Imperiale !!
MaxVinella