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L’America litiga sull’eutanasia di Terry. L’Onu: in 7 giorni 30mila morti di sete
Publie le martedì 22 marzo 2005 par Open-PublishingDazibao Acqua Internazionale USA
di Massimo Cavallini
Miami - Forse non si tratta d’un "colpo di stato costituzionale", come ieri mattina, con più che esplicita indignazione, l’ha definito un editoriale del Los Angeles Times (titolo: "Midnight Coup"). Ma certo si tratta d’una vergogna destinata ad entrare negli annali del Congresso degli Stati Uniti d’America come un piuttosto spregevole monumento all’ipocrisia della maggioranza repubblicana. O meglio: come il deprecabile prezzo che, con l’appoggio d’un considerevole numero di democratici e prevedibilmente, del presidente in carica, questa maggioranza ha pagato allo "zoccolo duro" del proprio elettorato. Il tutto, in ossequio ad una scalmanata difesa della "sacralità della vita umana" che - estremo paradosso - non ha esitato a calpestare uno dei principi sulla carta più venerati dall’America conservatrice: quello del federalismo.
In sintesi: per "salvare la vita di Terri Schiavo" - ovvero, per impedirle di "morire con dignità" come sostiene il marito Michael - tra domenica e lunedì la Camera dei Rappresentanti ha obbligato se stessa ad una lunga e molto pubblicizzata seduta notturna, grazie alla quale, allo scoccar della mezzanotte, è stata infine approvata in via definitiva (perché in piena sintonia con un analogo testo passato al Senato) una legge che consente a Bob e Mary Schindler - i genitori di Terri che con disperata tenacia s’oppongono alla scelta di lasciar morire la figlia - di presentare ad una corte federale ricorso contro la decisione di "staccare il tubo". George W. Bush si è a questo punto affrettato a sacrificare le sue vacanze pre-pasquali nel suo ranch texano di Crawford, per volare a Washington, al fine di spettacolarmente apporre la sua presidenzial firma ad un provvedimento che - prevedono i più - non salverà affatto la vita di Terri. Ma che sicuramente prolungherà nel tempo il tragico circo della battaglia accesasi attorno ad una morte che a questo punto, comunque finiscano le cose, non potrà più essere né dolce, né dignitosa.
Molto probabile è, infatti, che la Corte federale alla quale toccherà decidere il caso confermi le decisioni del giudice George Greer ( (alle tre del pomeriggio di ieri, ore 21 in Italia, era previsto l’inizio di una prima udienza)). Ed ancor più probabile è che la legge approvata ieri tra le lacrime e gli applausi dei promotori venga alla fine del suo iter giudicata incostituzionale (come già accaduto ad una legge varata dal governatore della Florida, Jeb Bush). Tutto quello che questa "vittoria" regalerà al dolore di Bob e Mary Schindler, non sarà molto probabilmente che questo: far temporaneamente riattaccare un tubo - quello che continua ad alimentare il corpo decelebrato di Terri - che verrà poi di nuovo staccato, di nuovo riattaccato e poi ancora staccato, in un tormentone legale che consumerà, anzi, che già ha, da tempo, consumato ogni alito della vera "sacralità" del tema della vita e della morte.
Qualcuno ha, in questi giorni, parlato di "diritto all’eutanasia". Ma non di questo si tratta. L’unico Stato americano che, oggi, vanta una legge sul cosiddetto "suicidio assistito" è, in realtà, l’Oregon (che l’ha approvata con referendum nell’anno 2000). E Bush ha solennemente promesso alla destra cristiana di condurre contro questo «obbrobrio» una battaglia senza quartiere. Molti Stati - e tra questi la Florida - concedono tuttavia ai malati terminali (o ai loro legali rappresentanti) il diritto d’interrompere quello che ormai avvertono come «accanimento terapeutico». Ovvero: come un tentativo ormai inutile (inutilmente crudele) di prolungare un’agonia senza speranza. O, se si preferisce - volendo per un attimo mutuare il linguaggio dei fanatici che, in queste ore, vanno pronunciando il nome di Dio invano - d’alterare la volontà del Signore "pompando" artificialmente vita laddove non v’è, in effetti, che un’inevitabile, dolorosa deriva verso la morte. Nessuno aiuta questi pazienti a morire in modo più rapido, ma, più semplicemente, i medici cessano, per diretta o indiretta volontà degli interessati, d’alimentare e curare il loro corpo incurabile. Ed è per questo che - come con ipocrita drammaticità ripetono oggi, sbraitando, quanti vogliono "salvare una vita umana da una fine terribile" - Terri dovrà "morire di fame e di sete". Il "guardiano legale" di Terri - ridotta allo stato vegetale da un’interruzione cardiaca nel 1990 - è il marito Michael Schiavo. Ed è lui che dopo otto anni d’attesa ha deciso - rispettando quello che, dice, era un desiderio verbalmente espresso dalla moglie - di "far staccare la spina". Lo ha fatto - con decisione presumibilmente sofferta e seguendo tutti i procedimenti legali del caso, come tutte le corti fin qui interpellate hanno confermato - in quadro giudico che, in omaggio allo storico federalismo statunitense, dà ai singoli Stati la facoltà di legiferare in materia.
Ogni anno, negli Stati Uniti, vi sono decine di casi analoghi a quello di Terri Schiavo. Stesso dolore. Stesse decisioni sofferte. Stessi dubbi di fronte all’abissale indeterminatezza dei confini che, sempre, separano la vita dalla morte, quel che è giusto da quel che è ingiusto. Stesse procedure di legge che, in tanta etica incertezza, offrono quantomeno regole eguali per tutti. Quel che di diverso v’è nel caso di Terri è, in piccola parte, il contrasto tra Michael ed i genitori (un contrasto iniziato già nel 1993 attorno al milione di dollari di compensazione per "malpractice" riconosciuto da un tribunale). E, ancor più, v’è l’entrata in scena del fanatismo religioso della destra cristiana americana. Quella stessa destra cristiana che - come sostengono tutti gli analisti - ha avuto un ruolo decisivo nella rielezione di George W. Bush alla presidenza, lo scorso novembre. Quella stessa destra cristiana che, in passato, ha organizzato le sue legioni nella battaglia contro il diritto di scelta in materia d’aborto. Per quest’America Terri Schiavo è diventata una bandiera. Ovvero: molto più (o molto meno) d’una vita da salvare. Un emblema, un’icona, un oggetto da agitare - come i feti in provetta - davanti al volto degli infedeli...
E proprio questo è il dato macabro e paradossale della storia. La destra americana (quella cristiana inclusa, ovviamente) s’è sempre erta a difesa del "diritto degli Stati di legiferare" e contro ogni "invadenza governativa" nella vita dei cittadini. Lo ha fatto quando s’è trattato di contrastare norme che "federalizzavano" (vale a dire, davano valore nazionale) ai diritti civili delle popolazioni di colore (un vecchio assioma dei conservatori del Sud vuole che la guerra di Secessione sia scoppiata, non in difesa dello schiavismo, ma, per l’appunto, dei "diritti degli Stati"). O di fronte a leggi che cercavano di regolamentare, in tutto il territorio nazionale, la vendita di armi da fuoco. O, ancora (soprattutto, per molti aspetti) quando proprio la vita umana era l’oggetto del dibattito. Feroce, ad esempio, era stata in passato (e tuttora è) l’opposizione repubblicana a qualsivoglia legge che garantisca ai condannati a morte la possibilità di presentare nuove prove della propria innocenza (o, comunque, della irregolarità dei processi che li avevano condannati al patibolo) presso tribunali federali. In questo caso è, nella più pura visione conservatrice, agli Stati che tocca decidere in materia di vita, o di morte. E va da sé che del tutto auspicabile, sancito questo diritto, è che la scelta vada - senza interferenze federali e senza il fastidio di campagne umanitarie (quelle organizzate dai gruppi religiosi comprese) - a favore della morte.
Nessuno può evidentemente dubitare della sincerità di quanti - non solo in America - si oppongono ad ogni forma d’eutanasia (assistita o non assistita). E nessuno può con leggerezza sancire il diritto di tagliare, come la parca Atropo, l’ultimo filo che lega una creatura alla propria esistenza. Quella che Bush ha ancor ieri chiamato - nel scendere come un angelo vendicatore dall’elicottero - la "cultura della vita" è davvero, oltre che la base del cristianesimo, un ineludibile principio di civiltà, un ovvio valore universale. Ma quantomeno dubbio è che sia davvero questa cultura, oggi, ad attaccare, staccare e riattaccare di nuovo il tubo che alimenta Terri. Il presidente che ieri, tra gli evviva dei locali talibani, è volato a Washington per "salvare la vita ad un essere umano che non può difendersi da solo", è la stessa persona che, da governatore del Texas, ha battuto ogni record in materia di condanne a morte firmate. Lo stesso che, nell’anno 2000, in un’intervista, non esitò a burlarsi (scandalizzando persino l’assai conservatore giornalista che l’andava interrogando) della richiesta di clemenza di Carla Fay Tucker (una condannata a morte a favore della quale avevano interceduto il Vaticano e, persino, alcune sette evangeliche).
Questa è l’America che, nel nome della "cultura della vita", s’è ieri di nuovo intromessa, con la grazia e la leggerezza d’una carica di bisonti, in una vicenda umana che non aveva alcun bisogno dell’intervento della politica. Ed a dare, come si dice, il tono all’iniziativa - o se preferisce a definirne l’inequivocabile stile - ha provveduto domenica sera un altro texano, il capo della maggioranza repubblicana alla Camera, Tom DeLay (detto, non per caso, The Hammer, il martello). «A me - ha dichiarato con toni savonaroliani - non interessa quello che pensa Michael Schiavo. Io so che Terri è viva. E so che lui vuole ucciderla. Che razza di uomo è un marito che vuole uccidere la moglie?».
DeLay ha, ovviamente, tutto il diritto di dire queste cose. Perché anche lui, come Bush, appartiene - contrariamente a Michael Schiavo ed a molti altri - alla razza degli uomini che "parlano direttamente con Dio". E chissà che presto, nella sua indefessa ricerca d’una giustizia divinamente sancita (in altre parti del mondo la chiamano "sharià"), il gran capo dei repubblicani non riesca (insieme a Bush ed a qualcuno dei nuovi giudici da Bush nominati) a far davvero felice Terri, finalmente sanzionando con una bella condanna alla sedia elettrica il tentato omicidio dell’ignobile Michael. Una condanna senza scampo. Perché poi, nel nome dei "diritti degli Stati" e della "cultura della vita" tanto cara al presidente, sarà ovviamente premura del "Martello" assicurarsi che il reo venga debitamente privato d’ogni possibilità d’appello presso le corti federali...