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Pietro Ingrao: "Quando tradii il Manifesto"
Publie le domenica 10 settembre 2006 par Open-Publishing1 commento
Dazibao Stampa Partito della Rifondazione Comunista Parigi Storia Pietro Ingrao
di Pietro Ingrao
Lo scontro nel partito si dilatò nell’ottobre del ’64, quando avevamo appena seppellito la salma di Togliatti. E scese in campo Amendola sostenendo che erano ormai superate sia la via sovietica, sia quella socialdemocratica, e ponendo l’obiettivo di un partito unico della sinistra.
A me e ad alcuni fra noi - pure favorevoli da sempre a una unità d’azione con i socialisti - quel discorso parve un ripudio della connotazione comunista e - concretamente - una marcata svolta a destra.
Subito la polemica infuriò nel partito e nei gruppi di intellettuali a noi vicini. Romano Ledda, un giovanissimo che dirigeva allora Rinascita, accusò Amendola di cedimento. E presto si delineò una spaccatura aspra fra una destra e una sinistra, che mi chiamò a una difficile funzione di leader.
Purtroppo in quel partito - per tanti aspetti nuovo rispetto ai grandi modelli dell’Est - il confronto aperto, l’esplicitazione del dissenso erano ancora eventi visti con allarme: giudicati pericolosi e colpiti da pesanti scomuniche. Presto la sinistra cosiddetta «ingraiana» fu oggetto di un attacco duro. E Amendola, quando attaccava, non era dolce. Ricordo come fosse ora un incontro fra noi due nella grande sala del Comitato centrale: sulla porta, prima dell’inizio della seduta. E Giorgio, rosso di collera, che mi annunciava repliche pesanti e punitive se non mi ritiravo dalle mie posizioni. Gli risposi con una parolaccia.
Longo, che era il nuovo segretario, parve in principio porsi fuori dalla mischia: anzi ad aprile scrisse per Rinascita un articolo che ci parve di apertura al dialogo. Presto però mutò posizione e si schierò al fianco di Amendola. Tanti anni dopo - quando si era ormai ritirato nella sua casa di Genzano, in grave sofferenza, e io andavo periodicamente a incontrarlo - un giorno mi disse (senza che io gli avessi posto domande), riferendosi a quel tempo così duro: «Mi avevano fatto credere che tu volessi diventare segretario». Gli risposi con la frase di rito: «Erano tempi difficili...» Allora quel conflitto interno, che era sembrato a un certo punto placarsi, riprese più violento nel Comitato centrale del settembre del ’65. E infine esplose all’XI congresso del partito, che si aprì nel Palazzo dell’Eur il 25 gennaio del ’66. Ormai gli ingraiani erano considerati chiaramente una frazione, e fummo presentati dagli «amendoliani» come una pericolosa eresia, quasi come un tradimento. Ed era vero che eravamo ormai una «frazione»: quel nome così usato - per aderire o maledire - nel vocabolario universale del movimento comunista.
Ricordo nitidamente il giorno in cui preparammo, nella mia casa di via Balzani, l’intervento che avrei pronunciato al congresso l’indomani. Era con me Lucio Magri, un compagno di grande valore, che mi era strettamente vicino in quella lotta. Lavorammo insieme a stendere quel mio testo, pesando con cura ogni parola. Terminammo di lavorare insieme alle due di notte, e io ero convinto che all’angolo della strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta «vigilanza» a controllare chi in quell’ora veniva da me: come in funzione di poliziotto di Botteghe Oscure. Non era così: era un’assoluta stupidaggine la mia. Lo ricordo solo a memoria delle tensioni e anche delle convinzioni sbagliate che in quei giorni drammatici giravano nella mia testa.
Dormii poche ore: di primissima mattina mi recai all’Eur, per far leggere a Longo il testo del mio intervento. Longo lesse e non fece obiezioni. Seppi dopo che - parlando con gli amendoliani - aveva detto loro: si rimangia tutto. E si sbagliava. Intervenni verso la fine della mattinata: c’era un silenzio assoluto nella sala. Mentre parlavo avvertivo quasi materialmente il filo della comunicazione. Alla fine del mio discorso direi che tutta quella massa di compagni scattò in piedi nell’applauso: e furono per me minuti indimenticabili. Nella tribuna della presidenza invece tutti i presenti rimasero assolutamente immoti sulla loro sedia: molti con le mani ostentatamente ferme sulle ginocchia. Non mi turbai: vivevo l’emozione di quel consenso del popolo comunista, e quando salii in macchina per il ritorno a casa ero ormai tranquillo e disteso. Mi accadeva sempre così: l’ansia grande alla vigilia della prova, e poi la calma quando mi trovavo nella mischia.
In macchina avevo al mio fianco Laura, che mi teneva la mano, e mia figlia Celeste. Feci una strigliata ala fanciulla eccitata da quel clamore che aveva visto esplodere, e naturalmente scambiai qualche breve parola di commento con mia moglie, che mi poneva alcune domande sugli sviluppi possibili: e non era proprio ottimista. Come volesse dire: «So quello che ci aspetta». A casa mangiai in fretta un boccone e presto ripartii per l’Eur, dove nella commissione politica mi attendeva la tempesta. La riunione si aprì con un attacco aspro di Franco Calamandrei, che non mi aspettavo. Poi seguirono a valanga gli altri, quasi tutti per condannare.
L’intervento più efficace forse fu fatto da Laconi, che sollevò una sottile questione di metodo, di stampo - come dire? - oligarchico. Mi accusava di non aver parlato di quel mio dissenso prima, nella commissione politica: come se quella frattura e quella polemica tra noi non fossero già note da tempo, e alla luce del sole. L’attacco più violento però venne nell’aula, e Pajetta e Alicata furono i più aspri: Pajetta con il suo sarcasmo pungente, Alicata invece con il tono allarmato di chi difende il movimento operaio da una aggressione ai suoi fondamenti, lanciarono l’appello grave ai princìpi. Fui condannato anche da Berlinguer (credo che quell’intervento gli sia stato chiesto esplicitamente da Amendola). Enrico parlò con misura, e tuttavia partecipò a quel rito di condanna. Quel suo schierarsi con la repressione del dissenso mi dispiacque molto.
Nella commissione che si tenne a chiusura del congresso, prevalse un pesante atteggiamento di condanna nei miei riguardi. Alicata sviluppò un nuovo attacco furente, in cui mi accusava quasi di tradimento, e chiese la mia esclusione dal gruppo dirigente. E la vicenda mi pesò molto, anche se non mutò nulla nella considerazione che io avevo di lui.
Ci furono anche dei silenzi che mi dispiacquero. Per fare solo un esempio, Trentin non prese la parola e invece io tenevo molto alla sua valutazione. Probabilmente c’erano in lui riserve sulla povertà della mia analisi degli sviluppo che viveva quel capitalismo di metà secolo. Ma è vero che io cominciavo soltanto allora una prima lettura della mutazione che si apriva nel mondo. Apprendevo. Scrutavo: come se iniziassi allora a varcare il cancello della fabbrica moderna. Era per me come una nuova alfabetizzazione, una verifica sul campo di quelle mie agre letture dei testi di Marx, di Gramsci... E in quel viaggio mentale fui aiutato molto dai miei compagni di frazione: la Rossanda prima di tutto, e Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina (quanti incontri nella sua casa gentile, sotto lo sguardo protettore di quella sua mirabile madre).
Seguivo invece da lontano la ricerca di Panzieri e Libertini. Panzieri morì presto, come per un destino crudele che lo stroncò nel pieno della sua ricerca originale, e la sua riflessione forse oggi è troppo dimenticata. E da posizioni diverse entrarono con forza nel dibattito figure anche molto diverse come Tronti, Fortini, Umberto Cerroni. Guardando ad esse avvertivo l’avanzare di una nuova generazione, segnata dalla convinzione che era necessaria una lettura nuova della lotta di classe nel mondo ormai in quel secondo mezzo secolo.
Vivevo con più sicurezza lo scontro per la libertà del dissenso: non solo perché la mia distanza dallo stalinismo era ormai grande, e s’era assolutamente sbiadito l’entusiasmo religioso con cui avevo visitato Mosca e la Piazza Rossa nei primissimi anni Cinquanta. In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalle rivelazioni sui delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà di opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto. E il frazionismo era paradossalmente necessario per la crescita di un’unità reale di classe e di popolo. L’unanimismo cominciava a sembrarmi più che un errore, un assurdo. Se mai era singolare che per tanto tempo io avessi tardato a comprenderlo. E infine la repressione di quel volto dell’esistere mi appariva impossibile.
Ma l’errore mio più grossolano allora fu un altro; non parlai apertamente e pubblicamente alla mia «frazione» chiamandola alla lotta col suo nome, perché questo sicuramente noi eravamo: una «frazione di partito» come ce n’erano tante in quasi tutti i partiti dell’Occidente e anche altrove, e quasi tutte avevano agito e agivano alla luce del sole, anche Lenin. Sbagliai perché più avanti la lacerazione interna avvenne lo stesso. Presto la vidi avanzare senza che riuscissi o sapessi intervenire, e forse fu qui la vera sconfitta dell’«ingraismo». Vennero le punizioni. Fu un miracolo che io fossi incluso nel neonato «ufficio politico», il nuovo organo affiancato alla segreteria, ridotta apparentemente a una struttura burocratica di lavoro, ma di fatto ancor più organismo di governo effettivo del partito.
I miei compagni di frazione furono tutti allontanati dai loro luoghi di lavoro. Luigi Pintor, che scriveva per l’Unità e che era, senza alcun dubbio, uno degli editorialisti più bravi in Italia con la sua scrittura asciutta e pungente, fu mandato a fare non so bene che nella patria Sardegna. La Rossanda fu allontanata dalla direzione della sezione culturale e spedita a lavorare alla Camera; Aldo Natoli fu rimosso dal suo compito nella sezione di organizzazione e praticamente emarginato. E così fu per altri ingraiani. Né io seppi difenderli. Ma l’errore mio più grave venne più tardi, nel 1969: quando quei compagni diedero vita a il manifesto, un mensile singolare e coraggioso.
Non capii bene se essi avessero misurato fino in fondo le conseguenze dell’iniziativa. Ma nonostante le mezze parole, le concessioni vaghe, le espressioni turbate o compunte di via Botteghe Oscure - dove Berlinguer già era insediato praticamente come segretario - io ero convinto che il gruppo dirigente quegli eretici del manifesto li avrebbe espulsi dal partito. Lo dissi brutalmente e tenacemente ai miei amici.
Ma sbagliai gravemente nello schierarmi: quando - giunti allo scontro in Comitato centrale - votai a favore della radiazione del gruppo del manifesto: e fu davvero un’azione assurda perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta. L’errore di quella mia decisione stette non solo nella viltà in cui m’associavo alla punizione dei miei compagni stretti di lotta, ma nell’illusione che quel mio partito si potesse salvare senza fare i conti sino in fondo con gli errori (i limiti gravi) del leninismo, o più ancora: col suo ormai palese e doloroso tramonto.
L’Unità on-line, 8 Settembre 2006
Messaggi
1. > Pietro Ingrao: "Quando tradii il Manifesto", 19 settembre 2006, 18:49
Ecco un metodo cattolico di analizzare la storia, il pentimento!
Da Marx a Ratzinger, la storia della dissoluzione del partito comunista italiano perseguita dai suoi stessi dirigenti.
Ora si pentono?
La chiesa è pronta ad accoglierli tra le sue braccia e forse a santificarli.
Oppure la madonna di Lourdes aveva già scritto la storia?
Non pentitevi di esservi pentiti, non avrete più posto nel nuovo movimento comunista e neanche sarete onorati per aver lavorato coscientemente al tentativo di distruzione del movimento comunista in Italia.
Zenzero Focaccia