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La cultura delle libertà e le sue ricadute sulle nostre pratiche
Publie le giovedì 12 febbraio 2004 par Open-PublishingMovimenti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Graziella Mascia
Caro Sandro, metto da parte le grandi questioni introdotte dal dibattito su
violenza - nonviolenza, per concentrarmi un attimo su un punto che può
apparire minore, ma che a mio avviso è parimenti indicativo della sfida
culturale proposta dal segretario. Se la categoria della nonviolenza ci
interessa, come a me interessa, per disegnare il mondo che vorremmo, penso
per esempio che questa dovrebbe essere strettamente correlata a una forte
cultura delle libertà, che rifiuta ogni forma di autoritarismo, di
proibizionismo o di qualsiasi logica di potenza in nome di un fine
superiore. Non alludo ad alcune esperienze tragiche del ‘900, che darei per
scontate, ma più semplicemente alla nostra cultura politica dell’oggi, alle
forme gerarchiche che spesso si tende a riprodurre, alla logica "militare",
che a volte caratterizza il nostro linguaggio e persino le modalità della
politica. Mi riferisco al condizionamento esterno che il nostro avversario
può agire su di noi, non solo per le grandi questioni richiamate da
Bertinotti, quanto alla nostra banale quotidianità, laddove predichiamo a
destra e a sinistra i principi irrinunciabili dei diritti umani e poi siamo
disponibili a metterli in discussione quando riguarda coloro che noi
consideriamo "nemici" o "un pericolo superiore".
Un es. per tutti: il nostro partito ha, un anno fa, votato in parlamento
contro la legge sul 41bis, relativa al carcere duro per mafiosi e
terroristi. Ma, alcuni anni fa, la necessità di contrastare il fenomeno
mafioso, e quindi di interrompere qualsiasi collegamento tra il dentro e il
fuori, ci aveva invece portato a condividere l’idea del doppio binario in
nome di una necessità superiore. Su questa come su altre questioni, si è da
tempo sviluppato un vero percorso di rifondazione. Così, abbiamo votato,
soli, nel parlamento europeo e in quello italiano contro una legge
antiterrorismo di carattere emergenziale e che tende a colpire il conflitto
sociale. Così non ci facciamo coinvolgere in una sorta di "furia
antiberlusconiana", in nome della quale bisognerebbe votare per un mandato
di cattura europeo, assolutamente incostituzionale, solo perché, per
ragioni diverse dalle nostre, lo stesso "cavaliere" non lo condividerebbe,
e tantomeno ci siamo fatti catturare da una idea di affidamento totale
all’Europa, in nome di una generica legalità, mentre si introducono in
costituzione europea, sul piano giuridico, pesanti restringimenti delle
garanzie previste dalla nostra costituzione. Un impianto culturale, cioè,
che ci consente di leggere ogni questione tenendo ferma la barra delle
garanzie giuridiche e individuali e che ci consente di non cadere nella
trappola emergenziale che nel passato ha coinvolto invece la sinistra, una
parte della quale è ancora lì intrappolata. Se nel centro sinistra ci si
rende disponibile a discutere sul carattere della guerra o su quello della
lotta al terrorismo, per cui si sacrificano principi fondamentali, attiene
a un rifiuto di mettersi in discussione, proprio a partire dalla storia di
questi decenni.
Sottolineo questi aspetti per due ragioni: 1) perché in Italia e nel mondo
esiste una emergenza garanzie e considero questa un impegno prioritario
delle sinistre e del movimento; 2) perché la società che vorremmo,
nonviolenta nel senso pieno del termine, chiede in modo indissolubile il
pieno riconoscimento dei diritti fondamentali a tutte e a tutti, compresi
quelli individuali che, in nome del bene collettivo, una volta si
consideravano "liberali" o sovrastrutturali. Diritti che ci dovrebbero
stare molto a cuore, laddove pensiamo a una società che mette a
disposizione di tutti gli strumenti per una libera scelta in ogni vicenda
privata, e per questo rinuncia a legiferare sui comportamenti individuali.
Anche questo è stato per le sinistre un approdo faticoso, sulle questioni
dell’aborto, come quelle delle droghe. E, nonostante la rivoluzione
prodotta dal movimento femminista e del pensiero della differenza, è
facile, anche a sinistra, incorrere ancora in una logica che pretende di
"dettare legge" sulla base di una morale, come la legge sulla fecondazione
assistita insegna.
Non affronto poi argomenti quali: "siamo contro la pena di morte, ma.. ",
oppure "siamo per recupero e la risocializzazione di chi ha sbagliato e ha
commesso reati", salvo poi, anche a sinistra, invocare il carcere per il
"nemico", o considerare necessaria la detenzione per un bene supremo quale
la sicurezza.
Tutto ciò per dire che, mentre respingiamo al mittente accuse o prediche
sulle nostre presunte pratiche violente o illegali, che ci vengono dal
governo o da altri, contemporaneamente dovremmo essere molto interessati a
ragionare sulle nostre contraddizioni, sul condizionamento esterno che
abbiamo introiettato. Perché, se dalle grandi questioni, a scalare fino
alle piccole, il fine dovesse giustificare il mezzo, la catena non si
interromperebbe mai, fino incidere sulle modalità della politica.
Se ragioniamo cioè sulla democrazia che vorremmo realizzare, sulla politica
come progetto, come soggettività organizzata, come partecipazione delle
classi, delle masse, dei popoli, delle persone, dovremmo prima di tutto
agire noi modalità e pratiche che le rendano possibile.
E allora, non va taciuto che, mentre il movimento dei movimenti ha messo in
campo una straordinaria ricchezza di pensieri, esperienze, storie, e per
questo suscita anche un "concreto sogno" circa la possibilità di un nuovo
mondo, le assemblee dei social forum o come li vogliamo chiamare, come
l’ultima a Bologna, si propongono spesso esattamente come palco in cui
sfilano al microfono tutte le competizioni muscolari possibili, e dove si
sviluppa un pesante gioco di potere misurato sul messaggio urlato o su una
presunta radicalità, non rapportata sul reale contenuto o sulla sua
efficacia, ma invece su slogan spesso demagogici e ininfluenti.
Quanto cioè, che per altri versi, a volte incontriamo nelle piazze, laddove
sporadiche pratiche simboliche o addirittura mass-mediatiche pretendono di
parlare a nome di una "moltitudine" che in realtà viene emarginata da una
logica avanguardista classica, che proprio il movimento ci dice di
lasciarci alle spalle.
Se queste considerazioni hanno un senso, anche il dibattito sulle pratiche
e la loro coerenza con il dibattito della nonviolenza può indirizzarsi su
un percorso diverso da quello che, a mio avviso, sulla base di un progetto
più politicista che altro, alcuni pretendono di leggere. Un percorso cioè
che non rinuncia alla filosofia della "disobbedienza", ma al contrario la
esalta come scelta di una generazione che contesta "uno stato di cose
presenti" che consideriamo illegittimo, e che quindi ci legittima nelle
nostre "illegalità".
Saremmo così più forti o più deboli, nel far valere le nostre ragioni e a
contestare radicalmente i tanti luoghi di potere a-democratico che decidono
senza essere stati mai delegati a farlo? Saremmo così più forti o più
deboli nel denunciare e respingere le tante forme di repressione palesi o
quelle che più subdolamente utilizzano con "fantasia" gli articoli del
codice penale? Sarebbe così più difficile o più facile tenere insieme le
tante diversità del movimento in un riconoscimento reciproco di culture
politiche e di pratiche?
Per me questo è proprio l’insegnamento di Genova e di quella straordinaria
e tragica esperienza che ha segnato la vita di tante persone. Anche per
questo, considero irrinunciabile che tutti coloro che in questo movimento
hanno fatto un tratto di strada insieme si ritrovino a Genova il 2 marzo,
per dire ancora una volta che i 26 compagni indagati sono invece vittime,
quanto noi, di una repressione che continua, e in cui riconosciamo una
regia internazionale. Per dire che questa straordinaria novità
rappresentata dal movimento mondiale è incancellabile. Ma ognuno di noi ha
la responsabilità di averne cura.
E se il dibattito promosso dal segretario può avere una ricaduta sulle
nostre esperienze concrete è in questa direzione, e non certo
nell’agevolare le intenzioni di chi vorrebbe dividere il movimento in buoni
e cattivi. Al contrario, questo tentativo, reiterato ininterrottamente da
prima di Genova fino ad oggi, ha potuto essere respinto proprio da una
capacità di contaminazione che ci ha interrogato reciprocamente in tutti
questi anni. Per questo, ho considerato e considero irricevibile in sé e
dannosa sul movimento la dichiarazione di Luca Casarini, quando sostiene
che "il dibattito aperto da Bertinotti apre uno spazio al ministro
dell’interno nella criminalizzazione del movimento".
E’ un grave errore introdurre elementi di divisione, peraltro
insostenibili. Come è un grave errore limitarsi a urlare contro la
repressione chiudendosi in una sorta di vittimistico autoisolamento.
Viceversa, è necessario e possibile, nonostante la forza dell’avversario e
il pensiero debole di tanti vicini di casa, cogliere le connessioni che
uniscono la nostra difesa dei tanti soggetti che ne sono vittime - da
esponenti del movimento, agli immigrati, ai lavoratori che praticano
scioperi "selvaggi" - alle lotte in corso in diverse categorie del pubblico
impiego che si oppongono ai processi di militarizzazione, dai vigili del
fuoco agli agenti di polizia penitenziaria. Lotte che fin qui vedono
schierate organizzazioni come Rdb e Cgil, ma che ci dicono di una
possibilità di ampliamento. Ed è proprio ad un allargamento del fronte che
dobbiamo puntare, non rinunciando mai a convincere anche coloro che ci
sembrano impermeabili. Anche in questo il movimento insegna.