Home > L’ombra delle carceri turche
Prigione medio-oriente Marco Santopadre
di Marco Santopadre (pubblicato sul settimanale "La Rinascita della sinistra" 1-7 Gennaio)
Anche i giornali progressisti, attratti dall’inizio dei negoziati per l’adesione di Ankara all’UE, stanno occultando la realtà di un paese in cui, nonostante le rassicurazioni dei funzionari di Bruxelles, gli arresti arbitrari, le sparizioni e gli omicidi extragiudiziali sono la normale amministrazione. Gli avvocati vengono perseguitati, i familiari dei carcerati subiscono minacce e perquisizioni corporali. La Polizia uccide e tortura protetta da una totale impunità.
Il governo del partito Giustizia e Sviluppo (AKP) si è affrettato a varare alcune riforme per rispettare i requisiti di democrazia richiesti da Bruxelles per l’avvio delle trattative. Ma i dati del primo semestre del 2004 parlano da soli: 18 persone uccise dalle forze di sicurezza; 6 morte nelle carceri per mancanza di cure mediche; 6 detenuti si sono dati fuoco per protesta e 8 si sono suicidati; due persone sono morte nei commissariati, 27 in scontri a fuoco con la polizia; 410 casi di tortura denunciati. Per non parlare dei mezzi d’informazione e delle associazioni per la difesa dei diritti umani chiusi perché accusati di attentare alla sicurezza dello stato. Ma è nelle sue carceri che il regime turco, dominato dalle caste militari, mostra il suo volto più feroce.
È da anni che i detenuti turchi e curdi protestano contro le condizioni disumane delle carceri: centinaia di persone ammassate in pochi metri quadrati, celle sporche, mancanza di una minima assistenza sanitaria, abusi sessuali ai danni delle prigioniere, impossibilità di parlare con gli avvocati, presenza di minori, strapotere della mafia. Nel 1996 il governo cominciò a parlare di riforma, decidendo di costruire nuove prigioni in cui trasferire i detenuti politici. Ankara ha potuto contare su un consistente contributo economico dell’UE, che nel contempo ha certificato lo standard europeo delle nuove prigioni di "tipo F".
Ma i carcerati chiamano bare le celle senza finestre, con una capienza massima di 3 persone. L’isolamento al quale vengono sottoposti i prigionieri politici mira a spezzarne il morale, ad annullarne la resistenza e la dignità. Oltre che a permettere alle guardie di poter torturare indisturbate. E’ questo il vero scopo della riforma: impedire ai prigionieri politici di avere contatti fra loro, come invece avveniva nelle vecchie celle comuni.
Oggi in Turchia, su 80 mila detenuti, ben 10 mila sono accusati di terrorismo o di reati connessi alla propria militanza politica; tra di loro ci sono i guerriglieri curdi, ma anche migliaia di militanti delle organizzazioni della sinistra turca, oltre a intellettuali, artisti, giornalisti.
Il 19 ottobre 2000, per tentare di impedire il loro trasferimento nelle nuove carceri, 816 detenuti politici della sinistra comunista turca cominciavano uno sciopero della fame ad oltranza, fino alla morte.
Il 19 dicembre scattò l’operazione "ritorno alla vita": 10.000 poliziotti e militari assaltavano coi bulldozer 21 prigioni nelle quali si svolgeva il "death fast". I prigionieri avevano minacciato di darsi fuoco, ma sono stati i poliziotti e i militari a bruciare vivi i detenuti usando benzina e armi chimiche che consumano la pelle e la carne delle vittime. 32 uomini e donne furono massacrati, gli altri vennero trasferiti a forza nelle nuove celle d’isolamento e sottoposti ad ogni tipo di vessazione. Eppure la protesta è continuata.
Non basterebbe un’intera pagina de La Rinascita per riportare i nomi delle 117 persone che dal 2000 si sono lasciate morire di fame per difendere il loro diritto ad essere considerati esseri umani. Ai morti occorre aggiungere 600 ragazzi e ragazze ridotti a larve umane dalla sindrome di Vernicke-Korsakoff contratta quando, incoscienti e legati ad un letto d’ospedale dopo mesi di digiuno, furono sottoposti all’alimentazione forzata da medici che hanno evitato di associare, in vena, agli zuccheri la vitamina B1, indispensabile per evitare la distruzione del sistema nervoso. Molti di loro stanno tornando nelle carceri, dopo qualche mese trascorso a casa o negli ospedali. "Devono scontare la loro pena, sono terroristi pericolosi", afferma il governo.
Anche oggi, nell’indifferenza dei Governi e delle istituzioni internazionali, la protesta nelle carceri turche continua.
Il 26 dicembre 2004, una giovane donna di 26 anni, Sergul Albayrak, in libertà da due settimane dopo 9 anni di carcerazione per ragioni politiche, si è data fuoco in Piazza Taksim ad Istanbul per protestare contro il regime di isolamento a cui è stata sottoposta.
"Non lasciate soli i nostri figli", ha chiesto il segretario di Tayad, l’Associazione dei parenti dei prigionieri politici turchi, in visita in Italia alla fine di dicembre. Ma chi raccoglierà il suo appello?