Home > L’eredità: l’Ungheria dopo 50 anni
Dazibao Movimenti Repressione Storia
di Tommaso Di Francesco
Parafrasando l’editoriale «Praga è sola» della rivista il manifesto del 1969 che costò all’intero gruppo che l’aveva promossa la radiazione dal Pci, oggi possiamo dire che l’Est non suscita più vera emozione.
Così nel disastro di una Ungheria che dopo 50 anni si ritrova divisa tra cerimonie ufficiali senza popolo e neofascisti in piazza, senza più lo spirito unitario di quella decisiva rivolta, facilmente leggiamo il riproporsi di quella tragedia in farsa. Ma non vediamo che questa parodia ormai ci precipita addosso. Così il movimento Jobbik, con la solidarietà della nostrana Forza nuova, sventola a Budapest bandiere con il buco in mezzo come se esistessero ancora simboli ufficiali del comunismo, e l’estrema destra italiana presidia l’ambasciata ungherese evocando «i carri armati dell’Urss». Mentre un fragile potere, quello del governo Gyurcsany costretto alla menzogna per sopravvivere, celebra lontano dalla gente che o chiede le sue dimissioni, o reclama il vecchio regime o, peggio, sceglie di non sapere preferendo il vuoto di un consumismo per altro impossibile.
L’Est non fa notizia. Che importa se il nuovo potere è mutuato dal vecchio, riciclato con le privatizzazioni nei nuovi padroni delle aziende di stato. Se l’autoritarismo forte del nazionalismo alla Putin o della religione, come in Polonia, ha preso il posto di una ideologia - in senso marxiano: falsa coscienza - autoritaria e gerarchica. Che importa se a Praga ieri nelle elezioni comunali ha votato solo il 30%. Non sono nate società civili ma piccole patrie xenofobe e «cristiane», e tante mafie, pronte alle guerre etniche intestine come alle avventure dell’Occidente imperiale. Nel vuoto c’è l’omologazione delle coscienze. Che si estende e ci pervade come un abisso.
E invece dovremmo riconoscere che questo abisso ci riguarda. Di più. Che noi, che ancora pensiamo possibile e necessaria una società di liberi ed eguali, ne siamo responsabili. Il silenzio di Togliatti alla lettera del comunista Imre Nagy - che pure chiedeva soccorso per non sbagliare - corrispose sciaguratamente al suo consenso epistolare alla repressione del Patto di Varsavia. I carri armati che reprimevano i consigli degli operai e degli studenti ungheresi altro non erano che l’anticipazione sanguinosa dei tank che avrebbero cancellato la Primavera di Praga tredici anni dopo. Ha poco senso sottolineare l’inevitabilità degli accadimenti perché il mondo «era diviso in due blocchi» come anche, giustamente, il contesto storico dei massacri occidentali in Grecia, Medioriente (crisi di Suez) e Asia.
L’accettazione di questa categoria fu devastante non solo a est ma anche in Occidente. Non ne trassero certo vantaggio i comunisti greci abbandonati da Stalin, né i popoli del Terzo mondo costretti a rimandare e a corrompere i processi di liberazione dal colonialismo. Non ne trasse vantaggio la classe operaia occidentale sempre più inscritta nella logica regressiva, produttiva e nazionale, dei vari capitalismi europei. Mentre proprio sulla rivolta di Budapest si era levata alta la voce della Cgil: «Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro umano sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e con la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà...».
Dobbiamo sentire il peso di questa responsabilità. E’ colpa nostra. Perché più rinunciamo a chiamarci in causa per la tabula rasa che c’è a Est, più rinunciamo qui e ora a proporre i contenuti di un cambiamento profondo della politica, della sua rappresentanza, del modo di vivere, produrre e amare per tutta l’umanità ma a partire da noi. Contribuendo così solo alla profondità dell’abisso di società ora appese ad un pericoloso limbo senza memoria.