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di Alfio Nicotra
Responsabile nazionale Dipartimento Pace del Prc
Per non rimanere un fuoco di fine estate il dibattito apertosi in alcuni settori del movimento in merito alle primarie dell’Unione necessità di un salto di qualità. Più che di un passamontagna arcobaleno credo infatti che il movimento pacifista abbia la forza e la capacità di condizionare alla radice alcune scelte programmatiche del centrosinistra. Per farlo occorre conseguire tre “rotture”:
nei confronti dell’ideologia della guerra umanitaria, della politica del “doppio binario” e dell’idea malsana che la politica estera dell’Italia debba essere per sua natura bipartisan.
L’ossimoro della guerra umanitaria è stato coltivato e praticato dal defunto “Ulivo mondiale”. Questa idea ha sdoganato la guerra come strumento possibile della politica, costituendo di fatto l’anticamera della dottrina di quella infinita e preventiva. Un metro di ghiaccio non si forma infatti in una notte. La devastante ideologia di Bush e dei neocons si è nutrita negli anni del rilancio della Nato, dei nuovi modelli di difesa, del ricorso alla forza delle armi “ovunque gli interessi occidentali siano minacciati”.
Agli amici della Rete Lilliput - con i quali continua in questi anni un proficuo rapporto di stretta collaborazione nelle campagne per il disarmo, contro il Wto e nella ricerca di quella cosa rivoluzionaria che è la nonviolenza- faccio notare come la scelta della loro festa nazionale di confrontarsi solo con D’Alema e Prodi rimuova esattamente questo punto. La guerra umanitaria del Kossovo è stata giustificata, nel migliore dei casi , come “una triste necessità”. Come se la guerra fosse una opzione ancora praticabile e comunque da tenere nel proprio orizzonte politico. Dispiace - ma ci sarà occasione di rimediare- che l’essere coerentemente pacifista e nonviolento anche in Parlamento non sia considerato un elemento dirimente. Quasi come - ed a questa concezione accede per altri versi anche Luca Casarini- la politica fosse un limbo separato dalla società, dove per propria natura le utopie (quella pacifista, altermondista etc.) dentro il Palazzo devono comunque lasciare il posto all’arte del possibile e piegarsi allo stato delle cose esistenti. Ne viene fuori una concezione lobbistica del ruolo dei movimenti, una impostazione un po’ vecchio stile che proprio l’irrompere di Genova aveva invece travolto.
Per questo occorre il superamento della politica del “doppio binario”. Quella per intendersi che porta a marciare per la pace ma a votare per la guerra (o gli strumenti con cui essa si realizza). Un vecchio vizio della sinistra e che è incompatibile con le aspettative di cambiamento che, su queste decisive questioni, si avverte nel Paese.
Perché l’Unione rappresenti una vera svolta rispetto al passato è necessaria la terza rottura : con quella cultura che considera la politica estera un terreno bipartisan. Una malattia atavica della politica italiana che porta per esempio centrodestra e larga parte del centrosinistra a votare insieme gli accordi di cooperazione militare con paesi in guerra come quello con Israele. “Nell’altro mondo possibile” il movimento no global ha volutamente segnato la necessità di un’altra politica di relazioni internazionali sia tra Stati che tra popoli. A Cancun, al round del WTO, l’Unione Europea è stata la principale nemica dei movimenti e dei paesi poveri propugnando per quest’ultimi ricette draconiane neoliberiste e per se stessa (e le multinazionali) tutela dei privilegi. Questa cosa, quella che gli zapatisti chiamano “guerra contro l’umanità” combattuta con la bomba “F” o “E” (Finanziaria o Economica) riguarda o no il profilo programmatico dell’Unione? Quanti concerti per l’Africa dobbiamo fare per lavarci la coscienza davanti al massacro sociale, ambientale ed umano che i piani di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale provocano? Per non parlare della tendenza a rendere eterne le nostre missioni militari all’estero. Ai teorici alla Fassino e Rutelli del “ritirarsi con lentezza” dall’Iraq, viene per caso in mente la necessità politica di una qualsivoglia exit strategy da applicare alla Bosnia o al Kossovo o all’Afghanistan? E poi ancora le spese militari che andrebbero tagliate; la legge 185 sul commercio delle armi che andrebbe potenziata; le basi militari che andrebbero rinegoziate e l’industria bellica che andrebbe riconvertita...
Non ci nascondiamo l’enorme difficoltà nel tentare questo genere di svolta nel profilo programmatico dell’Unione. Per poter incidere in questa direzione l’appuntamento delle primarie è però un passaggio importante. Non per patriottismo di partito ma per dare più forza a queste istanze è in campo la candidatura di Fausto Bertinotti. Se ha ragione da vendere Piero Bernocchi quando ricorda che il compito prioritario dei movimenti - ed il Prc profonderà in questo senso la maggioranza delle sue forze- è quello di fare lotte, vertenze e conflitto sociale con le quali anche il centrosinistra dovrà fare i conti, sbaglia quando propugna una estraneità o indifferenza dei movimenti dal processo elettorale (primarie comprese). I movimenti hanno anche il problema di portare a casa dei risultati. In Spagna il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato ottenuto sia con la mobilitazione ma anche con la partecipazione massiccia alle urne. Anche il voto - è utile ricordarlo- è uno strumento di lotta.