Home > Bertinotti commuove, ma non porta la pace
Bertinotti commuove, ma non porta la pace
di Micaela Bongi
INVIATA A CHIANCIANO
Sulle guance di delegati e delegate scorrono giù lacrimoni, tutti sono in piedi e applaudono, una lunga ovazione nella quale si mescolano gratitudine, senso di perdita, speranza di poter ricominciare o paura di non poterlo fare, nonostante tutto. Nonostante fino a subito prima che si avvii verso il palco rosso per prendere la parola, l’ex leader pressoché indiscusso che ha condotto il suo partito al terremoto elettorale del 13 aprile venga duramente criticato. In attesa sull’ingresso, qualcuno sfotte a voce alta: «Avrà portato il cachemire?». Ma i fischi temuti dallo stesso Fausto Bertinotti in sala non arrivano, è standing ovation all’inizio e alla fine, anche se il tutto ha un sapore drammatico nelle ore in cui il partito precipita verso la spaccatura verticale.
Lo stesso ex subcomandante è commosso alla lacrime quando alla fine del suo intervento da «delegato semplice» - tuttavia negli ultimi giorni molto attivo nel dare indicazioni ai suoi sulle ultime mosse prima della ormai inevitabile conta - torna sul palco dopo aver abbracciato una quantità di compagni e dice: «Grazie per tutto quello che mi avete dato in questi anni, grazie davvero, vi voglio bene». «Fausto, perché non fai il presidente con un coordinatore...», la butta lì poco dopo il ferreriano Giovanni Russo Spena incrociandolo. «Ti ringrazio Giovanni, ma sai che le diarchie non funzionano».
Il testo che l’ex segretario ha preparato è cambiato nelle ultime ore. Le sferzate che si annunciavano vengono ricalibrate alla luce del ricompattamento della mozione uno tenuta insieme con la decisione di candidare segretario Paolo Ferrero. A questo punto non è il caso di infierire: foss’anche per l’ultima volta, Fausto prova a spendere la sua autorità e ad ammaliare.
Nella ventina di minuti a sua disposizione, l’ex presidente della camera sintetizza l’analisi della sconfitta già scritta sulla sua rivista Alternative per il socialismo e illustrata in pubblico. Ma qui, al congresso più duro e cupo, è un’altra storia. Giacca a righine bianche e blu, a mezzogiorno e mezza e trenta secondi di applausi fragorosi, Bertinotti esordisce: «Si puo’ cominciare da tante parti, io scelgo di cominciare dalla crisi di moralità, di quando si smette di scandalizzarsi di un governo che ogni giorno distrugge i principi della Costituzione, che attacca la scuola fondamento della democrazia e annulla l’insegnamento di don Milani».
E crisi di moralità, prosegue, «non è quando c’è uno scandalo ma quando uno scandalo non è vissuto come tale. Oggi, a sette anni di distanza, le torture di Genova non sono ancora vissute come uno scandalo di questo paese». E scatta il primo dei ventisette applausi che punteggiano il discorso.
Il leader ritrovato - almeno per questa fine mattinata e al terzo giorno di dibattito ripiegato all’interno - non risparmia colpi di fioretto alla prima mozione. Critica la «metafisica e la retorica dell’opposizione» e chiede di «ricostruire un senso comune di appartenenza». La platea unita nell’ascolto sembra rispondere positivamente, come in un nuovo incanto.
La sinistra oggi non c’è, e per questo non c’è opposizione, continua Bertinotti. Non è sinistra il Pd, «non ha i fondamenti per esserlo» - prende le distanze - ma non è sinistra Di Pietro, lancia l’affondo: «Di Pietro e il populismo possono apparire opposizione ma non di sinistra, anzi sono una cultura di destra».
E’ la carta giocata in questi giorni dai vendoliani contro i ferreriani andati in piazza Navona con l’ex pm. E ancora, l’opposizione. Qual è il suo banco di prova? «Lo sciopero generale», scuote ancora i delegati Bertinotti e «lo so che a decidere è il sindacato, ma l’ambiente politico ne genera le condizioni. Come si fanno a costruire le condizioni per uno sciopero generale? Ci vuole un’opposizione politica e una cultura che riconquisti la sua forza». Ancora applausi. E applausi perché «abbiamo bisogno della ricostruzione di un nuovo movimento operaio», incalza. Con davanti una platea caldissima, il «delegato semplice» di Cosenza che sembra tornato segretario, dopo aver ammesso la «sconfitta di portata storica» dichiara anche «sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra».
Offrendo agli anti-vendoliani la prospettiva di riprovarci «dal basso». Perché «il processo costituente» deve comunque ripartire, anche se «oggi si deve dire che altro è il cammino, altri sono i protagonisti e diversa è la meta». Ma «non ci si mette in cammino per cercare rifugi» e l’antagonismo, punta idealmente l’indice verso i ferreriani Bertinotti, «non puo’ resistere a lungo se resta una forza minoritaria, deve avere una vocazione maggioritaria». Per concludere, il soccorso di Marx: «Oggi in Italia la sinistra non ha nulla da perdere se non le proprie catene». Sette minuti di ovazione e l’illusione del trionfo si scioglie nelle lacrime. «Il principale responsabile della disfatta di un partito è acclamato dal congresso del partito che ha distrutto.
È la misura plastica della crisi irreversibile di quel partito», commenta impietoso l’ex Prc Marco Ferrando.
Per qualche ora, poi, la relazione di Bertinotti sembra potere essere il terreno comune per una ricomposizione. I vendoliani ci provano. E Ferrero sembra quasi quasi convinto: «Mi è sembrato così netto sui temi della ripartenza dal basso che se avessi fatto io un intervento simile, anzi per molto meno, mi avrebbero accusato di volere l’autonomia del sociale. Ma sul passaggio relativo alla costituente non sono d’accordo». E il pomeriggio scivola in un clima da scissione.
il manifesto